Ah! Quante cose perdute che perdute non erano. Tutte le serbavi tu.
Minuti grani di tempo, che portò via un giorno il vento. Alfabeti nella spuma, che un giorno il mare travolse. Io li credevo perduti.
E perdute le nubi che pretendevo fermare nel cielo fissandole con occhiate. E l'allegria alta dell'amore, e l'angoscia di non amare abbastanza, e l'ansia di amare, di amarti, di più. Tutto perduto, tutto nell'essere stato un tempo, nel non esistere più.
E allora tu sei venuta dal buio, radiosa di giovane pazienza profonda, agile, perché non pesava sui tuoi fianchi snelli, sulle tue spalle nude, il passato che tu, così giovane, portavi per me. Ti guardavo alla luce dei baci vergini che mi hai dato, e tempi e spume e nubi e amori perduti furono salvi. Se da me fuggirono un giorno, non fu per morire nel nulla. In te continuavano a vivere. Ciò che io chiamavo oblio eri tu.
No, non lasciate chiuse le porte della notte, del fulmine, del vento, di ciò che mai si è visto. Restino aperte sempre esse, le ben note. E tutte, quelle ignote, che si aprono sui lunghi percorsi da tracciare, nell'aria, sulle rotte che stanno cercandosi un varco con volontà oscura e ancora non l'hanno trovato in punti cardinali. Mettete alti segnali, astri, meraviglie; che si veda chiaramente che è qui, che tutto desidera accoglierla. Perché può venire. Oggi o domani, o fra mille anni, o il giorno penultimo del mondo. E tutto deve essere così piano come la lunga attesa.
Eppure so che è inutile. Che è un gioco mio, tutto, aspettarla così come folata o brezza, temendo che inciampi. Perché quando lei verrà sfrenata, implacabile, a raggiungere me, muraglie, nomi, tempi, si frangeranno tutti, travolti, penetrati irresistibilmente dalla gigante tempesta del suo amore, ormai presenta.
Che gran vigilia il mondo! Nulla era fatto. Né materia, né numeri, né astri, né secoli, nulla. Non era nero il carbone né tenera era la rosa. Nulla era nulla, ancora. Com'è ingenuo credere che fu il passato di altri e in altro tempo, ormai irrevocabile, sempre! No, il passato era nostro: e nemmeno aveva nome. Potevamo chiamarlo a nostro piacere: stella, colibrì, teorema, invece che "passato"; togliergli il suo veleno. Un gran vento muoveva verso di noi miniere, continenti, motori. Di che, miniere? Vuote. Erano in attesa del nostro primo desiderio, per essere poi subito di rame, di papaveri. I porti, le città galleggiavano sul mondo, ancora senza un posto: aspettavano che tu dicessi loro: "qui", per lanciare le navi, le macchine, le feste. Macchine impazienti perché ancora senza meta; ché avrebbero fatto la luce se tu l'ordinavi, o le notti d'autunno se le volevi tu. I verbi, indecisi, ti guardavano negli occhi come cani fedeli, tremuli. Il tuo ordine avrebbe poi segnato il cammino, le azioni. Salire? Rabbrividiva la loro energia ignorante. Era forse andare verso l'alto "salire"? E andare verso dove era "discendere"? Con messaggi ad antipodi, ad astri, il tuo ordine avrebbe comunicato improvvisa coscienza del loro essere. Di volare o trascinarsi. Il grande mondo vuoto, inerte, innanzi a te stava: l'impulso lo avresti dato tu. E accanto a te, vacante, non nato ancora, in affanno, con gli occhi chiusi, il corpo già preparato per il dolore o il bacio. Con il sangue al suo posto, io, in attesa – ah, se non mi avessi guardato – che tu mi amassi e mi dicessi: "ora".
"Domani". La parola libera, vacante, senza peso, si muoveva nell'aria, così senz'anima e corpo, senza colore né bacio, che l'ho lasciata passare al mio fianco, nel mio oggi. Ma, all'improvviso tu hai detto: "io, domani..." e tutto si è animato di carne e di bandiere. Mi si precipitavano addosso le promesse di seicento colori, con vestiti alla moda nude, ma tutte ricolme di carezze in treni o gazzelle mi giungevano – acute, suoni di violini – snelle speranze di bocche verginali. O veloci e grandi come navi, di lontano, come balene da mari remoti immense speranze d'un amore senza termine. Domani! Che parola vibrante, tutta tesa di anima e carne rosata, corda dell'arco dove tu hai messo, acutissima, arma di venti anni, la freccia più sicura quando hai detto: "io..."
Lì, oltre il sorriso, non ti si conosce più. Vai e vieni, scivoli per un mondo di valzer gelati, all'ingiù; e passando, i capricci, gli impulsi ti carpiscono baci senza vocazione, a te, la momentanea prigioniera dell'agevole. "Che allegra!" Dicono tutti. Ed è che tu allora tenti di essere altra, così somigliante a te stessa, che ho paura di perderti, così.
Ti seguo. Attendo. So che quando non ti osservino gallerie né astri, quando il mondo crederà di sapere ormai chi sei e dirà: "sì, ora so", tu scioglierai, con le braccia in alto, dietro i capelli, il nodo, guardandomi. Senza rumore di cristallo cadrà per terra, maschera senza peso ormai inutile, il riso. E quando ti vedrai con l'amore che io ti tendo sempre come uno specchio ardente, tu riconoscerai un volto serio, grave, una sconosciuta alta, pallida e triste, la mia amata. Che mi ama al di là delle risa.
Perché hai nome tu, giorno, mercoledì? Perché hai nome tu, stagione, autunno? Allegria, tristezza, sempre perché avete nome: amore?
Se tu non avessi nome io non saprei che cos'era né come, né quando. Nulla.
Sa il mare come si chiama, di essere il mare? Sanno i venti i loro nomi, del sud e del nord, oltre che di essere puro soffio? Se tu non avessi nome, tutto sarebbe primo, iniziale, tutto scoperto da me, puro fino al mio bacio. Godimento, amore: delizia lenta di godere, di amare, senza nome.
Nome: pugnale conficcato nel mezzo di un petto puro che sarebbe nostro sempre se non fosse per il suo nome.
Che allegria, vivere e sentirsi vissuto. Arrendersi alla grande certezza, oscuramente, che un altro essere, fuori di me, molto lontano mi sta vivendo. Che quando gli specchi, le spie, mercurio, anime brevi, confermano che sono qui, io, immobile, serrati gli occhi e le labbra, chiuso dall'amore della luce, del fiore e dei nomi, la verità transvisibile è che cammino senza i miei passi, con altri, là lontano, e lì sto baciando fiori, luci, parlo. Che esiste un altro essere con cui io guardo il mondo perché sta amandomi con i suoi occhi. Che esiste un'altra voce con cui io dico cose non sospettate dal mio gran silenzio; ed è che anche mi ama con la sua voce. La via – che slancio ora! -, ignoranza degli atti miei, che lei compie, in cui lei vive, duplice, sua e mia. E quando lei mi parlerà di un cielo scuro, di un paesaggio bianco, ricorderò stelle che non ho visto, che lei guardava, e neve che nevicava nel suo cielo. Con la strana delizia di ricordare di aver toccato ciò che non toccai se non con quelle mani che non raggiungo con le mie, tanto distanti. E spogliato di sé potrà il mio corpo riposare, tranquillo, morto ormai. Morire nella certezza alta che questo viver mio non era solo il mio vivere: era il nostro. E che mi vive un altro essere di là della non morte.
Sì, tutto con eccesso: la luce, la vita, il mare! Plurale tutto, plurale, luci, vite e mari. Che salgano, che ascendano da dozzine a centinaia, da centinaia a migliaia, in un'esultante ripetizione infinita, del tuo amore, unità. Tavole, penne e macchine, tutto corra a moltiplicare, carezza per carezza, abbraccio per vulcano. Bisogna stancare i numeri. Che contino senza posa, si ubriachino contando, e che non sappiano più l'ultimo quale sarà: che vita senza termine! Una gran torma di zeri investa, nel passare, le nostre agili felicità, e le conduca alla vetta. Si spezzino le cifre, senza riuscire al calcolo né del tempo né dei baci. E ormai al di là di computi, di fati, abbandonarci alla cieca – quale penultimo eccesso! – al grande abisso del caso che irresistibilmente sta cantandoci con grida fulgide di futuro: "e questo non è niente. Cercate bene, c'è dell'altro".
Che giorno incontaminato! La spuma, di ora in ora, instancabilmente, bianca, bianca, bianca. Innocenti materie, i corpi e le rocce – dallo zenit totale mezzogiorno assoluto – stavano vivendo della luce, per la luce, nella luce. Ancora sconosciute la coscienza e l'ombra. Si tendeva una mano a cogliere una pietra, una nube, un fiore, un'ala. E si raggiungeva tutto, perché era prima delle distanze. Non sospettava il tempo di essere il tempo. Ci veniva accanto sottomesso ed elastico. Per vivere lentamente, in fretta, gli dicevamo: "fermati" o "mettiti a correre". Per vivere, vivere soltanto, tu gli dicevi: "vattene". E allora ci lasciava eterei a galleggiare nel puro vivere senza successione, salvati da motivi, da origini, da albe. Né volgere la testa né guardare lontano abbiamo saputo quel giorno tu ed io. Non ne avevamo bisogno. Baciarci, sì. Ma con labbra così remote dalla loro causa, che inauguravano tutto, bacio, amore, baciandosi, senza dover chiedere perdono a nessuno, a nulla.
Sperdutamente amanti, per il mondo, amare! Che confusione senza pari! Quanti errori! Baciare volti invece di maschere amate. Universo in equivoci: minerali in fiore, che vogano nel cielo, sirene e coralli sulle nevi perenni, e nel fondo del mare, costellazioni ormai stanche, transfughe dalla gran notte orfana dove muoiono i palombari. Noi due. Che smarrimento! Questa strada, l'altra, quella? Le carte, false, scombussolando le rotte, giocano a farci smarrire, fra rischi senza faro. I giorni ed i baci sono in errore: non hanno termine dove dicono. Ma per amare dobbiamo imbarcarci su tutti i progetti che passano, senza chiedere nulla, pieni, pieni di fede nell'errore di ieri, di oggi, di domani, che non può mancare. Dell'allegria purissima di sbagliare e trovarci sulle soglie, sui margini tremuli di vittoria, senza voglia di vincere. Con il giubilo unico di vivere una vita innocente tra errori, e che non vuole altro che essere, amare, amarsi nell'immensa altezza di un amore che si ama ormai con tanto distacco da tutto ciò che non è lui, che si muove ormai al di sopra di trionfi o di sconfitte, ebbro nella pura gloria della sua certezza.