È da un po' che non ci si sente.
Era ora che ti staccassi da me per fare un volo tuo.
Attaccato ai cuori degli altri, come fossero macchine a tenerti in vita, destinato a un'eutanasia premeditata, ti hanno disattivato circuiti e tolto l'ossigeno e ti ricordo ancora, rannicchiato a pugno, a pulsare faticosamente, con l'ansia della dipendenza, la devastazione della necessità.
Raggrinzito, tumefatto.
Mi sei stato dentro come un bambino concepito nel giorno del solstizio del mio inferno. Sono stata una madre non ancora pronta ad assolvere al suo compito, ma tu pronto lo sei sempre stato, per farmi quella promessa eterna senza mai pronunciarla veramente. Ti ho sentito gonfio, forte, grande nel petto e sei arrivato a scoppiarmi come un estremista che decide di morire in nome d'un sacrificio tendente all'amore infinito, sconfinato. Distesa, ti ho visto alzarmi la pelle sottile come fosse lembo di stoffa leggera e, crescente, decrescente, mi salivi in gola, finalmente pronto ad un parto naturale in un rigurgito di nuova vita, nutrito dalla placenta dell'assoluto.
Rammento i tuoi primi battiti incerti verso chi non ti ha riconosciuto, figlio illegittimo d'un uomo violento che aveva rinnegato persino il suo di cuore. Conservo ancora la sua lettera di ripudio per te.
Non mi è rimasto che darti il mio nome e farti mio per sempre.
Non ti è rimasto che ritornarmi dentro in un parto inverso d'una gestazione infinita, dal travaglio doloroso e dalle doglie continue.
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