Commenti a "La sofferenza crea la poesia. La felicità crea..." di Antonio Prencipe
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postato da Giuseppe Freda, il
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postato da Nadia Consani, il
Il senso della frase che intende Antonio è quello che ho scritto nell'ultimo commento perché lui l'ha confermato, ma anch'io non lo condivido come dici tu Jo, perché si può scrivere poesia anche quando siamo felici di vedere un tramonto, un volo di gabbiano o i colori della natura.
Però... ognuno ha le proprie opinioni e a questo punto può esternarle come vuole.
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postato da Sir Jo Black, il
Se la frase è questa che dite ora, autore compreso, non sono concorde per nulla con essa. Almeno così come è scirtta. Non è assolutamente vero che la sofferenza crea poesia e la felicità no! A creare poesia sono le emozioni forti, i colori intensi quindi anche l'essere felici può far scrivere.
Come vi ho già indicato al commento #17.
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postato da Nadia Consani, il
Quindi per concludere............
Non è la felicità a creare poesia, ma la sofferenza.
L'avevo capito fin dall'inizio che era questo il senso, ma era solo una questione di costruzione e siccome sono una burlona livornese, mi sono divertita a "mettere la pulce nell'orecchio". :-)))))))
Ciao Antonio, ridiamo!
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postato da Giuseppe Freda, il
Escluso dunque che la sofferenza possa creare felicità (altrimenti il decreto salva Italia, ed ogni vessazione cui siamo sottoposti, sarebbero per tutti noi un grande veicolo di felicità), vorrei fare una... piiiiccola osservazione di carattere un po' più profondino.
Mi sembra molto profonda la frase di Antonio "La felicità crea egoismi inutili. La sofferenza crea poesia."
Cerchiamo infatti la felicità e non la sofferenza, perché cerchiamo la nostra dimensione personale e non gli altri. Se cercassimo invece questo secondo aspetto, se ci rendessimo conto che la caratteristica principale della nostra vita è che la viviamo in mezzo a un mare di gente come noi, e tentassimo di comprenderla (la gente), ci accorgeremmo che questa gente è sofferente, e che per comprenderla occorre soffrire. Di questo ci accorgiamo invece solo quando, avendo avuto NOI un qualche dolore, ci accorgiamo di venire compresi ed aiutati solo da chi quel dolore lo ha provato e può comprenderci. Perché, come suol dirsi, "il sazio non crede alla fame di chi è digiuno": vi crede invece chi ha digiunato, e sa cosa significhi il digiunare.
Incredibilmente, quindi, è la sofferenza a portarci verso la comprensione della vita e degli altri.
In questa ottica, cioè di fronte a questo incredibile risultato, la poesia appare solo un sotto prodotto della sofferenza.
Ultima considerazione: è questo il motivo per cui io ritengo RAZIONALMENTE che vi sia molta più verità e divinità in un Cristo che soffre che nel nirvana di un Buddha panzone. Voglio dire che, se vi è un Dio, è molto più credibile che si sia espresso nella povertà e nella sofferenza di Gesù Cristo in croce, piuttosto che nel Buddha o in altri ieratici e felici personaggi. Papi compresi.
E... se non vi è, beh, allora bisogna finalmente capire che ciascuno di noi lo può inventare e diventare. Ma non attraverso la felicità: attraverso la sofferenza.
Chi sa... forse è questa la vera felicità che cerchiamo.