Quando sarò memoria, in quale età degli occhi tuoi salirò a galla. Giovane, fra i tuoi giochi in ginocchio, per avere il tuo viso a livello del mio. O come oggi mi vedi, dall'altezza del ramo terminale ove fiammeggi: io per te spallidente radice, figura che abbandona la finestra, già sfilato ogni anello. "Naturale, non infelice abnegazione" - medita, centrandomi, lo sguardo di diamante dei tuoi vent'anni. Seppure così non è: che mai non cessa, mai, di trasalire alle sobillazioni di primavera l'anima. (Saprai tutto a suo tempo). Adesso fermami in questa luce di trapasso, -profilo tra fuoco e cenere - già incisa memoria in te, dove mi sento in salvo.
Ma chiedilo al tremore delle mani quando si fanno nido alla tua nuca, chiedilo alle radici delle vene quando m'ami, al mio cuore che boccheggia spingendo la sua punta palpitante fra i cerchi delle costole di pietra. Chiedilo ai giorni, quando ne raccolgo in ginocchio i frantumi, se anch'essi non inneggiano al tuo nome!
Tu non mi lasceresti così sola, con l'anima accecata e senza voce come una grotta occlusa o un delta disertato dai suoi fiumi. Tu non mi lasceresti qui delusa mentre la sera taglia dai vetri oblique croci che si spezzano ai muri, mentre attendo e incarto l'ore in futili menzogne.
T'aspetterò, tutt'una con la casa, insieme impallidendo a poco a poco; non vorrò, a lungo, accendere la luce: preparerò la tavola a tentoni scegliendo la tovaglia preferita né scorderò gli anemoni. Poi ghiaccia siederò, l'anima in fiamme, un libro in mano, chiuso.
Finché vedrò i lampioni mettere tutti insieme gli orecchini.
Quanto allora avrò atteso, potrà dirti – se tu venga! – il rimorso della sveglia.