Il sole filtra tra i fitti alberi del bosco, i suoi raggi rimbalzano sulle foglie verdi, trasformandole, nel riverbero, in preziosi smeraldi. Un fruscio fa alzare le orecchie di un leprotto che sta masticando golosamente erba e bacche trovate tra le felci del sottobosco. Uno stormo di uccellini si alza in volo con un canto melodioso, alcune farfalle dai colori vividi lasciano i fiori dove erano posate, intersecandosi in un movimento leggiadro nell'aria, creando una danza. Ecco il perché del fruscio, appare lei: la fata in tutta la sua bellezza, candido splendore dalle ali regali, con un abito che ad ogni passo sprigiona scintille di luce. La sua grazia è tale che tutta la foresta tace al suo passaggio in una muta ammirazione. Il suo incedere è deciso, ma lieve. È giunta invocata dai pensieri di un bimbo innocente che sogna un mondo dove può correre ancora nei prati fino a farsi mancare il respiro e poi buttarsi in terra e sentire l'erba sotto di sé e le fronde di un albero che gli fanno ombra per ristorarlo dalla corsa. La sua purezza di cuore ha generato la favola e la bellissima fatina porta dei doni a tutti coloro che hanno ancora la capacità di sognare, di credere con la fede di chi è certo che tutto è possibile, anche l'impossibile. Tante piccole briciole luminose d'amore arrivano dalla sua magia, polvere di stelle che si posa sui cuori e nei cuori, trasformando la realtà oscura in luce... Basta crederci.
Penso di essere nata con uno spiccato istinto materno, poiché fin dai primi anni di vita il mio gioco preferito era accudire ipotetici bambini con tanto amore ed attenzione. Quel giorno ero in cucina accanto alla mia mamma che rammendava alcuni capi di vestiario di noi bambini, in silenzio, ma con un'espressione serena e soddisfatta. Eravamo una famiglia unita e sempre con l'entusiasmo di vivere, lavorando, ma per costruire un futuro sereno per noi tutti e in questo il trascinatore era il babbo, mamma lo seguiva a ruota, ma con, a volte, un po' di stanchezza normale e doverosa a causa dei molteplici lavori da svolgere per tenere tutto lindo e ordinato in casa e per coadiuvare suo marito che lavorava giorno e notte in officina. Erano pochi anni che si abitava in una casa tutta nostra, piccolissima: cucina, una stanza da letto divisa in due da una tramezza per creare anche stanzetta per noi figli, io e mio fratello più grande, i servizi fuori, nel cortile, già avevamo doccia e d'inverno era una goduria! (Ricordo vagamente...) questo per dire che eravamo un po' meno che poveri, si mangiava tutti i giorni, cose semplici, avevamo un tetto sopra la testa (ogni tanto pioveva dentro e si raccoglieva le gocce di acqua piovana in una bacinella), si aveva il necessario, ma il superfluo non esisteva. Io avevo circa quattro anni, ma mi sentivo decisamente una bambina serena e pensavo che il mondo e la vita erano fantastici perché avevo tutto questo: mamma che sapeva di saponetta alla rosa, papà che odorava di benzina e olio del motore, Piero che era mio fratello ed era grande e mi faceva giocare e poi mi raccontava storie e poi mi dava spesso e volentieri anche scapaccioni, implorandomi subito dopo di non piangere, facendo il buffone per farmi ridere, altrimenti arrivavano a lui scapaccioni e sgridate a non finire. Quel giorno, dunque, ero tranquilla e pacifica a giocare accanto a mamma, con due fazzoletti di papà che lei mi aveva insegnato a piegare in modo tale da trasformarli in due bamboline, magicamente ero mamma di due bambine che io vedevo bellissime e amavo teneramente e le accudivo e le cullavo e venivo proiettata dalla mia spiccata fantasia in un mondo magico dove luci, colori e profumi mi facevano da cornice, parlavo spesso da sola in lunghi monologhi, ma io percepivo le risposte al mio chiacchierare, erano forse dialoghi? Chissà magari non ero sola? Ad un certo punto sentiamo un: - Permesso? La porta si apre e papà entra con una "Signora" elegante, profumata, ricordo il rossetto sulle sue labbra ed orecchini d'oro che avevano riflesso un luccichio al passaggio sotto la lampadina che illuminava la cucina. Io mi alzo dallo sgabellino dove giocavo con le mie "bamboline", un po' intimidita da quella presenza e... improvvisamente mi appare una bambina che era per mano a quella signora, era piccina ma subito pensai che era bella davvero come una bambola. Papà disse che stava controllando la loro auto, le presenta a mamma e dice che avrebbero aspettato con noi che finisse il lavoro. Mamma e la signora cominciarono a parlare e io perdo subito il filo del discorso e guardo incuriosita quella bambina che è elegante come la sua mamma: aveva un delizioso cappottino e scarpe con lacci che mi parevano così belle e per me sconosciute, che forse appartenevano al mio mondo magico, dove sempre andavo giocando. Anche lei mi guardava incuriosita e dopo pochi attimi comincia a parlarmi. Si chiama Daniela, ha tre anni, due grandi occhi scuri da cerbiatto e, meraviglia, da sotto il berrettino rosso le vedo spuntare un ricciolo bruno. Credo di aver pensato a quanto era fortunata quella bambina perché avere un ricciolo, io che avevo capelli chiari e lisci, era un dono del Cielo. Aveva un bel chiacchiericcio quella bambina, io la guardavo e ascoltavo, quando improvvisamente mi chiede se ero capace di fare la spaccata... - Fare cosa? Le dico... e lei, con grazia e noncuranza, si butta a terra in una "spericolata" spaccata. Io resto a bocca aperta, mai visto niente di simile e Daniela mi appare come un abitante di un altro mondo. La sua mamma le toglie cappottino e berrettino e l'invita a giocare con me, mentre prende un caffè che mamma le ha preparato. Comincio a prendere confidenza con questa creatura: una bambina in carne e ossa, chiacchierina, bella e poi... dotata di capacità "paranormali", come fare una pericolosa spaccata senza colpo ferire il suo corpicino. Una forza della natura e anche con qualche ricciolo sparso che ribelle scappa dalla sue treccine... perché rimango piacevolmente sorpresa a vederle, anche lei come me treccine a incorniciare i nostri visetti. Parliamo, parliamo, parliamo... Mi dice che andrà a scuola di danza classica, che metterà il tutù e le scarpette rosa per danzare sulle punte e mi chiede di andare con lei... Io già ero con lei e mi sentivo tanto ballerina eterea e delicata in tutù e scarpette. Peccato che bisognava andare fino a Casale Monferrato, peccato che aveva un costo notevole, peccato che i miei genitori mi davano il necessario e non si potevano permettere i "sogni". Io so che ho salutato Daniela quel giorno capendo di aver conosciuto la mia prima amichetta in assoluto, di averla sentita nel cuore da subito, di aver poi giocato con lei, studiato, fatto merende, risate e condivisioni per tanti anni e di ritrovarla oggi come quel giorno, con simpatia e amorevole amicizia e ammirazione per tutto ciò che fa e lo fa con maestria. Sono sempre grata alla vita per tutto ciò che mi dona e per le belle persone che ho incontrato sul mio cammino e che sempre mi hanno insegnato qualcosa: Daniela è una di queste. P. s. Io per giorni e giorni dopo il nostro incontro, ho giocato a fare la ballerina di danza classica e mi mettevo sulle punte sognando la ribalta, finché mia mamma, con una sculacciata, me lo ha proibito perché mi rovinavo i miei poveri piedini.
27 Maggio 1973. 27 Maggio 2020... anniversario del mio matrimonio, 47 anni... Una cifra di anni incredibile, se ci penso, un soffio per come la percepisco. Sono quasi 19 anni che sono sola, Carlo è già partito per ritornare a casa e solo oggi, durante la reclusione per covid, sono riuscita ad esternare un po' del mio dolore per non averlo più accanto. Ricordo... Ricordo il caldo soffocante di quei giorni di quasi fine luglio. Percepivo come delle mani che mi attanagliavano alla gola e non mi permettevano più un regolare respiro... forse non respiravo più. Ricordo il silenzio intorno a me, anche la natura taceva... forse non sentivo più. Ricordo degli abbracci sconosciuti, degli sguardi di pena, dei bisbigli... forse non riconoscevo e non percepivo più la presenza degli altri accanto a me. Poi, improvviso, esplode il mio sentire, quando giro gli occhi e vedo... Vedo dei fiori con un profumo dolciastro che quasi mi fa vomitare; vedo dei ceri la cui fiammella si muove come in una danza macabra; vedo dei drappi scuri, con quei colori violacei che sanno di morte... Già morte... Ed ecco, nell'istante in cui questa parola vibra e prende forma dentro di me, lo vedo... Cosa ci fa Carlo, immobile, dentro una bara, ha gli occhi chiusi, non si muove, non mi parla, non mi guarda... Un urlo parte da dentro la mia Anima, un boato che scuote la nostra collina, la nostra casa delle favole trema, le nostre cagnoline drizzano le orecchie e Ambra, lentamente muove il capo e mi guarda: come mai non l'ho spaventata? Ho urlato forte... o forse non ho urlato. Sono immobile, gli occhi che non vedono, le orecchie che non sentono, le gambe che non si muovono. Sono morta anch'io, come lui. Risento la sua voce, mi sta chiamando: - Dai topina, vieni vicino che ti abbraccio, sono troppo felice di essere qui accanto a te, finalmente la "nostra" casa, la "mia" terra dove posso e voglio piantare tutti i fiori che più ti piacciono. Tu e Ambra siete la mia ragione di vita e ringrazio sempre la vita per tutto ciò che mi ha donato. -Dai amore, vieni che ti abbraccio, chiudiamo la porta con il mondo fuori da qui. -Amore mio ti amo tanto. -Ma sei imbranata, ma come potrei mai lasciarti sola! Ne combineresti di tutti i colori! ... e io rido felice, sicura del suo amore, sicura del mio amore. Non ho dubbi, non ho paure, siamo insieme. "Condoglianze", questa parola sovrasta la voce di Carlo e mi fa sbattere le ciglia. Sono seduta nella nostra cucina, guardo fuori e com'è che è sempre tutto uguale a prima? Il cielo azzurro, i fiori nel roccioso davanti a casa, la piscina pronta per essere usata, le mie cagnette pelosette che corrono e scodinzolano ad accogliere delle persone estranee che vengono in silenzio e con gli occhi pieni di una pietosa commiserazione. Odio quegli occhi. Io sono morta. Non respiro e non parlo, gli occhi asciutti che guardano e non vogliono vedere quel volto scarno, immobile, freddo, come scolpito nel marmo, i suoi meravigliosi occhi verdi celati dalle palpebre abbassate. Penso: sembra Cristo morto in croce. Io costui non lo conosco. Qualcuno mi prende per mano, dobbiamo andare, saliamo su un'auto e mi rendo conto che non ho pensieri, l'unico che mi sfiora è quando passiamo in una nuova rotonda, prima di entrare nel mio paese, mi dico: Carlo non ne farà mai uso, non sa nemmeno che è stata fatta. Il piazzale della chiesa è brulicante di gente, l'asfalto bollente mi fa perdere per un attimo l'equilibrio, qualcuno mi sostiene. "Condoglianze"... che parola è? Cosa significa? Io sono morta. Entriamo e percorro la navata della Chiesa, il mio abito da sposa bianco, vaporoso, a balze, di seta, ricamato con delle margherite, mi fa sentire come una principessa. Ho in mano un bouquet fatto di roselline bianche e rosa con i fiordalisi. Li ho voluti fortemente perché mi ricordavano la mia meravigliosa infanzia, quando pedalavo sulla mia biciclettina rossa, fino ai campi, lì la buttavo sulla riva e mi catapultavo in mezzo al grano, ne sento ancora l'odore e il calore e poi quei deliziosi fiordalisi blu che insieme ai papaveri, mi solleticavano il naso pieno di lentiggini! Guardo avanti e vicino all'altare vedo il mio principe che mi sorride e mi tende una mano. Siamo emozionati, siamo felici, sembriamo due bambini a cui hanno regalato una torta panna e cioccolato di cui sono ghiotti. Non vediamo l'ora di gustarla. Non vediamo l'ora di gustare la "vita". "Condoglianze"... ancora e ancora mani che mi toccano e non conosco. Chiudo e apro gli occhi e vedo una bara con dei fiori sopra con scritto: mari e ambra per sempre. Non sono fiordalisi! Io sono morta. ... e poi parole... parole... qualche lacrima di qualcuno, io immobile, io con un cuore di ghiaccio, tanto caldo fuori, tanto freddo dentro... Urlo, piango, mi dibatto, strappo da me le mani che mi toccano in carezze estranee... No. Sono immobile. Io sono morta. L'unica mano che voglio e che cerco è quella di Ambra, i suoi occhi sono enormi nel visetto smunto, mi fa tenerezza e non piango nemmeno quando mi dice: -Mamma non avere paura, non ti preoccupare, ci sono io vicina a te. Al cimitero il caldo è veramente torrido. Penso che mi sono vestita di blu, un colore che attira ancor più i raggi di sole, ma so che piaceva a Carlo. So che a lui piacevo sempre e sorrido ricordando che mi prendeva sulle ginocchia e mi ripeteva all'infinito: -Sei bella, bella, bella... è un'eco che mi rimbomba nel cervello e sento la rabbia, una rabbia devastante che mi riempie dalla testa ai piedi... e urlo! -Sei un bugiardo, sei cattivo, sei un mostro di perversione! Tante promesse, per sempre, non potrei mai lasciarti sola e invece lo hai fatto e io grido ora il mio dolore e ti prendo a pugni e ti vorrei uccidere con le mie mani, ma non posso, tu sei già morto e io non sto gridando, sono immobile. Io sono morta. Guardo quel buco nella terra e mi sento venir meno e comincio a ricordare... Voglio ricordare tutto, voglio che tutti gli anni condivisi, nel bene e nel male, ma sempre con quell'Amore intenso che ci faceva sentire ricchi, con la preziosità di un sentimento spesso difficile da trovare, che noi, però, avevamo per un dono di Dio, scorrano intensi dentro di me. Ecco, ora, sento che mi tieni la mano, come facevi sempre, poi la lasci per cingermi con un braccio le spalle e con l'altra mano prendi quella di Ambra: siamo insieme per l'eternità. Continuo a ricordare... Sento le nostre risate, sento la nostra complicità, sento i nostri progetti, sempre in sintonia, non sembravamo veritieri quando ci raccontavamo agli altri e parlavamo all'uniscono perché ci piacevano le stesse cose e tutto si faceva con quell'armonia che ci portava poi nelle notti a perderci in quell'Amore dolcissimo e perfetto, quasi in una sacralità destinata a pochi. Anche la malattia voglio ricordare perché ci ha donato momenti di un'intensità tale da renderci elevati in una sofferenza che non aveva nulla di fisico, bensì solo lo strazio della consapevolezza di un distacco momentaneo, poiché noi saremo insieme per sempre, appena io partirò per arrivare fino a te. Silenzio, sento solo il silenzio rotto da qualche sospiro e dal rumore che gli uomini fanno con il movimento delle corde per far scivolare la bara in quel buco che mi affascina e mi chiama. E urlo: -Fermi! Aspettate! Carlo spostati, vengo con te, mi faccio piccola piccola e tu mi abbracci e mi tieni stretta, come quando ci addormentavamo insieme e si parlava e si rideva, complici, compagni, amanti, a volte, ma proprio poche volte, nemici, bastava una battuta tua e un sorriso mio e tutto scompariva come una bolla di sapone. Perfetti insieme, come quando ballavamo e mi guidavi nel nostro valzer lento, così armonizzati che pareva dovessimo innalzarci in volo. Dai vengo con te. Io sono morta. Scendo in quel buco nero, vedo il cielo azzurro sopra di noi e vedo quella donna vestita di blu con gli occhi sbarrati che non piangono, che non sente, non vede, non parla, non respira più e mi fa tanta pena. Dovrà imparare a vivere, sarà difficile, sarà dura perché ora lei è sola. Io sono morta e vengo con te.
Le vicende s'intersecano generando un groviglio che crea confusione nelle teste e nei cuori. È necessario avere la capacità di fermarsi per un attimo per poter discernere e saper trovare il bandolo della matassa. Inutile agitarsi, serve solo ad aumentare la confusione e generare ansia che annebbia la testa e accorcia il respiro. Cercare il silenzio della mente è il primo passo verso la saggezza, per la comprensione del senso della vita.