Allor che i miei buoni fratelli m'avevan due volte sepolto, disse una voce: (io non so come e dove) "Assolto. Mancanza assoluta di prove". Si apersero tutte le porte, si apersero tutti i cancelli. "Assolto!" Io sono "l'assolto" miei cari signori, e ora che sono fuori guardatemi bene in viso: ho ucciso? "Assolto!" È la mia professione, che intendo bene di sfruttare dal suo lato migliore. "Assolto!" Appena uscito mi accorsi subito qual era il miglior partito. Fuggire? Nascondersi agli occhi della gente? Macché! Sottrarsi alla sconcezza del dubbio ch'io rivesto? Macché! Rivestirlo dignitosamente o con disinvoltura? Macché! Niente, niente! Esibirsi, senza misura, generosamente. Gli è perciò ch'io frequento le strade, il passeggio, i teatri, il caffè, come ogn'altr'uom non assolto: certe volte mi diverto poco... certe altre molto... né più né meno di lui o di te. Si sa che color che incontrandomi intrecciavan col mio bei sorrisi, vedeste ora che visi... che visi mi fanno! E che voci sorprendo dai crocchi! Vedeste che occhi! - Un innocente si scolpa. - E un farabutto lo stesso. - Ha taciuto, ecco tutto. - Ha taciuto come un innocente. - Ha taciuto come un farabutto! - E gli errori? - Questi sono gli errori, i delinquenti sono tutti fuori! Entro per tempo in teatro, prendo possesso della mia poltrona con molto sussiego. Mi volgo, mi chino, mi spiego; mi lascio ammirar giro giro con aria da Dio. E se certi visi si spostano resta inflessibile il mio. Per i primi venti minuti lo spettacolo lo do io. "Bella che stai puntandomi attraverso la lente dell'occhialino, dimmi, mio bel musino, mi desideri innocente, o mi desideri assassino?" Un signore là indietro, dai posti distinti, macina lesto fra i denti: "sul trono, sul trono i briganti!" E un altro: "guardate che ghigna stasera, facciaccia da galera!" Quando s'alza il sipario divento anch'io un umile spettatore, come lui, negli antratti ritorno un poco attore, eppoi ancora spettatore come te, come tutti gli altri. E se dopo all'uscita qualcuno mi aspetta, io esco pian pianino senza nessuna fretta. Poi vado al caffè. Finché c'è gente sveglia nella città resto a sua disposizione, nessuno dev'essere defraudato nella legittima curiosità, sono un galantuomo nella mia professione. E non crediate ch'io sia tardivo ad escir fuori al mattino, macché! bisogna pensare che il mattiniero ha gli stessi diritti del nottambulo cittadino. "Assolto!" Può sembrar poco... e può sembrar di molto. Guardatemi bene in viso: ho ucciso?
Non so perché quella sera, fossero i troppi profumi del banchetto... irrequietezza della primavera... un'indefinita pesantezza mi gravava sul petto, un vuoto infinito mi sentivo nel cuore... ero stanco, avvilito, di malumore. Non so perché, io non avea mangiato, e pure sentendomi sazio come un re digiuno ero come un mendico, chi sa perché? Non avvevo preso parte alle allegre risate, ai parlar consueti degli amici gai o lieti, tutto m'era sembrato sconcio, tutto m'era parso osceno, non per un senso vano di moralità, che in me non c'è, e nessuno s'era curato di me, chi sa... O la sconcezza era in me... o c'era l'ultimo avanzo della purità. M'era, chi sa perché, sembrata quella sera terribilmente pesa la gamba che la buona vicina di destra teneva sulla mia fino dalla minestra. E in fondo... non era che una vecchia usanza, vecchia quanto il mondo. La vicina di sinistra, chi sa perché, non mi aveva assestato che un colpetto alla fine del pranzo, al caffè; e ficcatomi in bocca mezzo confetto s'era voltata in là, quasi volendo dire: "ah!, ci sei anche te".
Quando tutti si furno alzati, e si furono sparpagliati negli angoli, pei vani delle finestre, sui divani di qualche romito salottino, io, non visto, scivolai nel giardino per prendere un po' d'aria. E subito mi parve d'essere liberato, la freschezza dell'aria irruppe nel mio petto risolutamente, e il mio petto si sentì sollevato dalla vaga e ignota pena dopo i molti profumi della cena. Bella sera luminosa! Fresca, di primavera. Pura e serena. Milioni di stelle sembravano sorridere amorose dal firmamento quasi un'immane cupola d'argento. Come mi sentivo contento! Ampie, robuste piante dall'ombre generose, sotto voi passeggiare, sotto la vostra sana protezione obliare, ritrovare i nostri pensieri più cari, sognare casti ideali, sperare, sperare, dimenticare tutti i mali del mondo, degli uomini, peccati e debolezze, miserie, viltà, tutte le nefandezze; tra voi fiori sorridere, tra i vostri profumi soavi, angelica carezza di frescura, esseri pura della natura. Oh! com'è bello sentirsi libero cittadino solo, nel cuore di un giardino. -Zz... Zz -Che c'è? -Zz... Zz... -Chi è? M'avvicinai donde veniva il segnale, all'angolo del viale una rosa voluminosa si spampanava sulle spalle in maniera scandalosa il décolletè. -Non dico mica a te. Fo cenno a quel gruppo di bocciuoli che son sulla spalliera, ma non vale la pena. Magri affari stasera, questi bravi figliuoli non sono in vena. -Ma tu chi sei? Che fai? -Bella, sono una rosa, non m'hai ancora veduta? Sono una rosa e faccio la prostituta. -Te? -Io, sì, che male c'è? -Una rosa! -Una rosa, perché? All'angolo del viale aspetto per guadagnarmi il pane, fo qualcosa di male? -Oh! -Che diavolo ti piglia? Credi che sien migliori, i fiori, in seno alla famiglia? Voltati, dietro a te, lo vedi quel cespuglio di quattro personcine, due grandi e due bambine? Due rose e due bocciuoli? Sono il padre, la madre, coi figlioli. Se la intendono... e bene, tra fratello e sorella, il padre se la fa colla figliola, la madre col figliolo... Che cara famigliola! È ancor miglior partito farsi pagar l'amore a ore, che farsi maltrattare da un porco di marito. Quell'oca dell'ortensia, senza nessun costrutto, fa sì finir tutto da quel coglione del girasole. Vedi quei due garofani al canto della strada? Come sono eleganti! Campano alle spalle delle loro amanti che fanno la puttana come me. -Oh! Oh! - Oh! ciel che casi strani, due garofani ruffiani. E lo vedi quel giglio, lì, al ceppo di quel tiglio? Che arietta ingenua e casta! Ah! Ah! Lo vedi? È un pederasta. -No! No! Non più! Basta -Mio caro, e ci posso far qualcosa io, se il giglio è pederasta, se puttana è la rosa? -Anche voi! -Che maraviglia! Lesbica è la vaniglia. E il narciso, quello specchio di candore, si masturba quando è in petto alle signore. -Anche voi! Candidi, azzurri, rosei, vellutati, profumati fiori... -E la violaciocca, fa certi lavoretti con la bocca... -Nell'ora sì fugace che v'è data... -E la medesima violetta, beghina d'ogni fiore? fa lunghe processioni di devozione al Signore, poi... all'ombra dell'erbetta, vedessi cosa mostra al ciclamino... povero lilli, è la più gran vergogna corrompere un bambino -misero pasto delle passioni. Levai la testa al cielo per trovare un respiro, mi sembrò dalle stelle pungermi malefici bisbigli, e il firmamento mi cadesse addosso come coltre di spilli. Prono mi gettai sulla terra bussando con tutto il corpo affranto: -Basta! Basta! Ho paura. Dio, abbi pietà dell'ultimo tuo figlio. Aprimi un nascondiglio fuori della natura!
"Saltella e balletta comare Coletta! Saltella e balletta!"
Smagrita, ricurva, la piccola vecchia girando le strade saltella e balletta. Si ferma la gente a guardarla, di rado taluno le getta denaro; saltella più lesta la vecchia al tintinno, ringrazia provandosi ancora di reggere alla piroetta. Talvolta ella cade fra il lazzo e le risa: nessuno le porge la mano.
"Saltella e balletta comare Coletta! Saltella e balletta!"
– La tua parrucchina, comare Coletta, ti perde il capecchio! – E il bel mazzolino, comare Coletta, di fiori assai freschi! – Ancora non hanno lasciato cadere il vivo scarlatto. – Ricordan quei fiori, comare Coletta, gli antichi splendori? – Danzavi nel mezzo ai ripalchi, n'è vero, comare Coletta? Danzavi vestita di luci, cosparsa di gemme, E solo coperta di sguardi malefici, vero? – Ricordi le luci, le gemme? – Le vesti smaglianti? – Ricordi gli sguardi? – Ricordi il tuo sozzo peccato? – Vecchiaccia d'inferno, tu sei maledetta.
"Saltella e balletta comare Coletta! Saltella e balletta!"
Ricurva, sciancata, provandosi ancora di reggere alla piroetta, s'aggira per fame la vecchia fangosa; trascina la logora veste pendente a brandelli, le cade a pennecchi di capo il capecchio fra il lazzo e le risa, la rabbia le serra la bocca di rughe ormai fossa bavosa. E ancora un mazzetto di fiori scarlatti le ride sul petto.
"Saltella e balletta comare Coletta! Saltella e balletta"
Tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello, un esiguo ruscello: rio Bo, un vigile cipresso. Microscopico paese, è vero, paese da nulla, ma però... c'è sempre disopra una stella, una grande, magnifica stella, che a un dipresso... occhieggia con la punta del cipresso di rio Bo. Una stella innamorata? Chi sa se nemmeno ce l'ha una grande città.
Chi sono? Son forse un poeta? No certo. Non scrive che una parola, ben strana, la penna dell'anima mia: follìa. Son dunque un pittore? Neanche. Non à che un colore la tavolozza dell'anima mia: malinconia. Un musico allora? Nemmeno. Non c'è che una nota nella tastiera dell'anima mia: nostalgìa. Son dunque... che cosa? Io metto una lente dinanzi al mio core, per farlo vedere alla gente. Chi sono? Il saltimbanco dell'anima mia.
Clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, clocchette, chchch... È giù, nel cortile, la povera fontana malata; che spasimo! Sentirla tossire. Tossisce, tossisce, un poco si tace... di nuovo. Tossisce. Mia povera fontana, il male che hai il cuore mi preme. Si tace, non getta più nulla. Si tace, non s'ode rumore di sorta che forse... che forse sia morta? Orrore Ah! No. Rieccola, ancora tossisce, Clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, chchch... La tisi l'uccide. Dio santo, quel suo eterno tossire mi fa morire, un poco va bene, ma tanto... Che lagno! Ma Habel! Vittoria! Andate, correte, chiudete la fonte, mi uccide quel suo eterno tossire! Andate, mettete qualcosa per farla finire, magari... magari morire. Madonna! Gesù! Non più! Non più. Mia povera fontana, col male che hai, finisci vedrai, che uccidi me pure. Clof, clop, cloch, cloffete, cloppete, clocchete, chchch...
Nel cuor della notte, ogni notte, la veglia incomincia a palazzo Oro Ror. In riva allo stagno s'innalza il palazzo, soltanto lo stagno lo guarda perenne e lo specchia.
Già lenta l'orchestra incomincia la danza, la notte è profonda.
Comincian le dame che giungon da lungi, discendon silenti dai cocchi dorati. Dei ricchi broccati ricopron le dame, ricopron le vesti cosparse di gemme i ricchi broccati.
Finestra non s'apre a palazzo Oro Ror, ma solo la porta, la sera, pel passo alle dame. In fila infinita si seguono i cocchi dorati, discendon le dame silenti ravvolte nei ricchi broccati. Lo stagno ne specchia l'entrata, e l'oro dei cocchi risplende nell'acqua estasiata.
L'orchestra soltanto si sente. Si perde il vaghissimo suono confuso fra muover di serici manti. La veglia ora è piena. Di fuori più nulla. Silenzio.
Un cocchio lucente ancora lontano risplende, s'appressa più ratto del vento e rapida scende la dama tardante. Se n'ode soltanto il leggero frusciare del serico manto.
In fondo alla china, fra gli alti cipressi, è un piccolo prato. Si stanno in quell'ombra tre vecchie giocando coi dadi. Non alzan la testa un istante, non cambian di posto un sol giorno. Sull'erba in ginocchio si stanno in quell'ombra giocando.
Chicchicchirichi!... Chicchicchirichi!... "Ecco il dì". Cantano i galli di Cobò. Il vecchio Cobò è sul suo letto che muore fra poche ore. Povero Cobò! Povero Cobò! Ciangottano i pappagalli. Addio Cobò! Addio Cobò! E le galline: cocococococococodè: "oggi è per te" cocococococococodè: "Cobò tocca a te". Le tortore piene di malinconia si sono radunate in un cantuccio: glu... glu... glu... "non ti vedremo più". I cani si aggirano mesti con la coda ciondoloni, mugolando: bau... bau... baubaubò: "addio papà Cobò". E i gatti miagolando: gnai... gnai... gnai... fufù "Mai... mai... mai più". E le cornacchie: gre gre gre gre "anche a te, anche a te". Fissando il capezzale la civetta veglia e aspetta.