È un ampio armadio scolpito; l'antica scura quercia ha preso una buon'aria di vecchia gente; l'armadio è aperto, e scioglie dentro l'ombratura come onda di vin vecchio, un profumo attraente.
È un miscuglio di vecchie anticaglie, stipato di panni odorosi e gialli, di straccetti di donne e fanciulli, di appassiti merletti, di scialli di nonna col grifo pitturato;
- Qui trovi ciocche di capelli bianche e bionde, i ritratti, i medaglioni, la frutta e i fiori secchi il cui profumo insieme si confonde.
- Ne sai di storie, o mia credenza d'ore morte! Vorresti dirci i tuoi racconti, e fai rumori se lente s'aprono le grandi nere porte.
Nella sala da pranzo, bruna, profumata di frutta e di vernice, come chi non pensa raccolsi un piatto di non so quale portata belga, e sprofondai nella mia sedia immensa.
Mangiando, udivo il pendolo, - calmo e giulivo. La cucina s'aprì in mezzo a una sbuffata. - Entrò la serva, e chissà per quale motivo, lo scialle sfatto, con malizia pettinata,
ecco il ditino tremante pose e ripose sulla sua guancia, velluto di pesche-rose bianche, e con smorfie del suo labbro bambino
per mio agio, i piatti mi riordinò vicino - poi, - ma certo per prendersi un bacio, - così mi soffiò: "Ho una freddo alla guancia, senti qui... "
I pugni nelle tasche rotte, me ne andavo con il mio pastrano diventato ideale; sotto il cielo andavo, o Musa, a te solidale; oh! Là, là! Quanti splendidi amori sognavo!
La sola braca aveva un largo buco. - In corsa sgranavo rime, Puccetto sognante. E l'Orsa Maggiore era la mia locanda. - Lassù le stelle in cielo avevano un dolce fru fru;
le ascoltavo, seduto ai lati delle strade, nelle sere del buon settembre ove rugiade mi gocciavano in fronte un vino di vigore;
e, rimando in mezzo ai tenebrosi fantastici, come fossero lire, tiravo gli elastici delle mie scarpe ferite, un piede sul cuore!
Io, come un angelo seduto dal barbiere, vivo stringendo uno scanalato bicchiere, collo e ipogastrio curvi, una " Gambier" tra i denti, sotto i cieli gonfi di vele trasparenti.
In me mille sogni, come caldi escrementi di vecchia colombaia, fan dolci bruciature; e il mio tenero cuore è un alburno, a momenti, che il giovane oro insanguina di linfe oscure.
E, quando con cura ho ringoiato ogni sogno, mi volto, bevuti più di trenta bicchieri, e mi raccolgo a mollare l'acre bisogno:
dolce come il Dio del cedro e degli issòpi, io piscio altissimo e lontano contro i neri cieli - approvato dai grandi eliotropi.
Lontano da uccelli, da greggi, da paesane, io bevevo, rannicchiato in una brughiera, cinta da una selva di noccioli leggera, in verdi e tiepide foschie meridiane.
Che potevo bere in quella giovane Oïsa, muti olmi, cielo coperto, erba senza fiori. Che spillavo alla mia fiasca di colocasia? Un liquore d'oro, insulso, che dà sudori.
Cattiva insegna d'osteria sarei stato. Poi il temporale mutò il cielo, fino a sera. Furon laghi, pertiche, stazioni, una nera regione, e nella notte blu fu un colonnato.
L'acqua dei boschi moriva alla verginale sabbia, e il vento, dal cielo, ghiacciava acquitrini... Io, pescatore d'oro e di gusci marini, dire che non pensai di bere, come tale!