Ho assaggiato il sorriso dei tuoi occhi, sconfinati in questo prato, gustando piano il sapore semplice, acre e dolce del fiore giallo di campo che tieni ancora stretto tra i tuoi denti. Ho poi risposto allo sguardo delle tue labbra, socchiuse a fissar le mie, respirando con timore un profumo, intenso e a me mortale, che pare bianco fiore d'oleandro per quanto m'abbia tolto ogni respiro. Chi sei, fiore di campo? E la tua linfa è dolce, o velenosa? Perché quello che più temo è d'essermi ormai ucciso poggiando la mia bocca su di te. E ancor di più m'uccide la consapevolezza che quant'ho fatto, io lo rifarei.
Balli, zingara, al sorgere d'un sole che t'invidia per quanto tu riesci a riscaldare con il tuo corpo scuro e la passione. Balli, zingara, con la civetta luna che si specchia in questo mare tavola di luglio e rende te più bella alla sua luce. Balli, zingara, col cuore e il corpo liberi, vagando come foglia giù dal ramo che segue il vento, e sfugge delicata. E se vorrai, zingara, io ballerò con te amante fortunato per un attimo sapendo che ti prenderai il mio cuore per poi dimenticarlo insieme al ballo. Perché il solo sapere che sei zingara, non mi sarà abbastanza per difendermi e rinunciare a te che già m'hai preso.
Ne ho dipinto il sorriso con le tempere più calde Ne ho suonato la voce sfiorando tasti d'avorio pregiato Ne ho danzato l'allegria tenendo il passo d'un ritmo latino Ne ho cantato la tristezza, accompagnato dalle cicale Ne ho fotografato il corpo come fosse un panorama Ne ho scritto le parole con inchiostro su carta d'Amalfi Ne ho recitato la vita, nella piccola parte che mi spettava. Adesso non ho più tempere, né un pianoforte, non un tamburo che scandisca il tempo. Non ho più un prato con le cicale, non ho pellicola, non ho carta lavorata a mano, né un teatro che mi ascolti. Ma se solo per questo volessi smettere di dipingere, di suonare, di danzare e di cantare, di immortalare pose, di scrivere e di recitare, allora si, smetterei anche di vivere.
Non è il calore della sabbia a riva, che va sbiadendo sotto mite luna. Non è la calma di quest'acqua viva la cui risacca mi sussurra, e tace. Non è il sospiro d'una brezza estiva che qui mi sfiora, calda ed opportuna. Non è la fiamma, mai di vita priva né il crepitio che viene dalla brace. No, non è questo, ma il tuo pensiero in una notte a mare, come tante a farmi figlio, padre, amante, amico, uomo. A farmi vero.
Due grandi noccioli sono fioriti e pur non avendo da assaggiarne i frutti sono felice. Lo specchio di quello che penso di quello che sento, di quello che sono, vi ha riflesso sopra calore e luce facendoli germogliare rendendoli vivi. No, non basta, io vorrei. Eppure adesso sono felice, non per quello che otterrò in cambio. Per quello che ho dato, perché li ho visti fiorire, e non ho rimpianti.
Stordita ed ebbra dei colori d'un tramonto, ogni singola attenzione muta aspetto come nuvola s'un cielo azzurro e rosa. E non penso a ciò ch'è stato, mentre del giallo il mio respiro è pieno. Non a quel ch'avrei dovuto, mentre m'incanto ad ascoltar l'arancio. Non a chi devo il mio grazie, mentre mi brucia rosso l'orizzonte. Non a quanto sto sbagliando, fino a che il sole non annega, e tace. Tutto torna al vero aspetto, come desto da un bel sogno che via via perde colori. Ma domani, chiedo e spero che all'arrivo della notte venga rinnovato omaggio. Allor, si, tornerei ebbro. Per poter dimenticare, lungo il lasso di un tramonto ciò ch'è stato, quanto avrei dovuto, chi m'è creditor d'un grazie e l'insieme dei miei errori.