Sei stato come certe fiorite di ginestre in autostrada che fanno invidia al sole, brevi a giugno come colpi al cuore, come fiammate di luce che aumentano le spine, senza cui niente è uguale, niente vale.
Ti porto via dalla plancia di comando di questo cimitero che prende il mare. Vecchia cellula erosa abituata ai venti, ne guido l'abside di vedetta. Tu nel ponte, sottocoperta, primo mio viaggiatore amato, a cui devo l'onore del viaggio. Non ti proteggerò dal lungo buio delle notti, ma sarò lucciola perenne che brucia con la tua, sfarfallando negli anni. La terra si è ricoperta di fiori, e io guido la carica della nave su cui ti sei imbarcato senza dirmi neanche "ciao" (e lo avresti voluto, anche per essere un'ultima volta mio).
Voi intrecciate il vostro sangue, stendendo le razze l'una incrociata nell'altra, vite su vite, volti riconoscibili agli occhi talvolta. Scendete lungo la camera buia delle tempeste-età, brucate la prateria del mare, attraversate il telo celeste ma io riempio il vostro passaggio di solitudine: dove andranno le ore dell'estate? Dove rispunterà il cielo di ieri? Poi scendete dall'albero della creazione, cigolate appena sul carrello, rientrate nella polvere fine. Sempre io vi tormento dalla mia zolla, dalla nube aerea, generazioni, ere incerte e febbrili. E non avete ancora camminato abbastanza.