Scrittore, poeta, drammaturgo, aviatore, politico e patriota, nato giovedì 12 marzo 1863 a Pescara (Italia), morto martedì 1 marzo 1938 a Gardone Riviera (Italia)
Socchiusa è la finestra, sul giardino. Un'ora passa lenta, sonnolenta. Ed ella, ch'era attenta, s'addormenta a quella voce che già si lamenta, - che si lamenta in fondo a quel giardino.
Non è che voce d'acque su la pietra: e quante volte, quante volte udita! Quell'amore e quell'ora in quella vita s'affondan come ne l'onda infinita stretti insieme il cadavere e la pietra.
Ella stende l'angoscia sua nel sonno. L'angoscia è forte, e il sonno è così lieve! (Par la luce d'april quasi una neve che sia tiepida. ) Ed ella certo deve soffrire, vagamente, anche nel sonno.
Tutto nel sonno si rivela il male che la corrompe. Il volto impallidisce lentamente: la bocca s'appassisce nel suo respiro; su le guance lisce s'incava un'ombra... O rose, è il vostro male:
rose del sole nuovo, pur di ieri, ch'ella recise ad una ad una (e intanto ella era affaticata un poco, e intanto l'acque avean su la stessa pietra il pianto d'oggi), oggi quasi sfatte, e pur di ieri!
Ella non è più giovine. I suoi tardi fiori effuse nel primo ultimo amore. Fu di voluttà ebra e di dolore. Un grido era nel suo segreto cuore, assiduo: - Troppo tardi! Troppo tardi! -
Ella non è più giovine. Son quasi bianchi i capelli su la tempia; sono su la fronte un po' radi. L'abbandono (ella è supina e immota), l'abbandono fa sembrar morte le sue mani, quasi.
Né pure il gesto fa scendere mai sangue all'estrenútà de le sue dita! La tragga il sogno lungi da la vita. Veda nel sogno almen ringiovanita l'Amato ch'ella non vedrà piu mai.
Socchiusa è la finestra, sul giardino. Un'ora passa lenta, sonnolenta. Non altro s'ode, ne la luce spenta, che quella voce che giù si lamenta, - che si lamenta in fondo a quel giardino.
Autunno, che negli occhi suoi specchiasti e nel mar taciturno il tuo fulvo oro - tutte le acque un immobile tesoro parvero, e gli occhi più del mare vasti -,
Autunno, io non sentii mai così forte la tristezza che tu solo diffondi - quante di me né tuoi boschi profondi son cose morte tra le foglie morte!
Come ieri. Fu ieri la suprema tristezza e fu l'amor supremo. Ah mai, ne l'ore più segrete, mai l'amai come ieri. Ancor l'anima ne trema.
Ella taceva, chiusa ne la nera tunica dove sparsi erano fiori pallidi, Autunno, come i tuoi che indori sul vano stelo; e, china a la ringhiera,
guardava il golfo solitario, china come colei che un peso immane aggrava. - Ombra de la sua fronte! - O non guardava forse dentro di sé la sua ruina?
Forse. Non domandai. Ma così piena- mente a lei rispondean tutte le cose visibili, apparenze dolorose d'anime involte ne la stessa pena,
che io credetti vedere il suo dolore in quelle forme, vivere in un mondo espresso intero dal suo cuor profondo, irradiato da quel solo cuore;
e fu per me ciascuna forma un segno che svelava un mistero: quasi un muto verbo; e più nulla fu disconosciuto, anche per me, ne l'infinito regno.
Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d'Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all'Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti alpestri, che sapor d'acqua natia rimanga né cuori esuli a conforto, che lungo illuda la lor sete in via. Rinnovato hanno verga d'avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano, quasi per un erbal fiume silente, su le vestigia degli antichi padri. O voce di colui che primamente conosce il tremolar della marina!
Ora lungh'esso il litoral cammina La greggia. Senza mutamento è l'aria. Il sole imbionda sì la viva lana che quasi dalla sabbia non divaria. Isciacquio, calpestio, dolci romori.
Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane.
Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove sui pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini, su le ginestre fulgenti di fiori accolti, su i ginepri folti di coccole aulenti, piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggeri, su i freschi pensieri che l'anima schiude
novella, su la favola bella che ieri t'illuse, che oggi m'illude, o Ermione.
Odi? La pioggia cade su la solitaria verdura con un crepitio che dura e varia nell'aria secondo le fronde più rade, men rade.
Ascolta. Risponde al pianto il canto delle cicale che il pianto australe non impaura, né il ciel cinerino.
E il pino ha un suono, e il mirto altro suono, e il ginepro altro ancora, stromenti diversi sotto innumerevoli dita.
E immersi noi siam nello spirito silvestre, d'arborea vita viventi; e il tuo volto ebro è molle di pioggia come una foglia, e le tue chiome auliscono come le chiare ginestre, o creatura terrestre che hai nome Ermione.
Ascolta, Ascolta. L'accordo delle aeree cicale a poco a poco più sordo si fa sotto il pianto che cresce; ma un canto vi si mesce più roco che di laggiù sale, dall'umida ombra remota.
Più sordo e più fioco s'allenta, si spegne. Sola una nota ancor trema, si spegne, risorge, trema, si spegne. Non s'ode voce del mare. Or s'ode su tutta la fronda crosciare l'argentea pioggia che monda, il croscio che varia secondo la fronda più folta, men folta.
Ascolta. La figlia dell'aria è muta: ma la figlia del limo lontana, la rana, canta nell'ombra più fonda, chi sa dove, chi sa dove! E piove su le tue ciglia, Ermione.
Piove su le tue ciglia nere sì che par tu pianga ma di piacere; non bianca ma quasi fatta virente, par da scorza tu esca. E tutta la vita è in noi fresca aulente, il cuor nel petto è come pesca intatta, tra le palpebre gli occhi son come polle tra l'erbe, i denti negli alveoli son come mandorle acerbe.
E andiam di fratta in fratta, or congiunti or disciolti (e il verde vigor rude ci allaccia i malleoli c'intrica i ginocchi) chi sa dove, chi sa dove! E piove su i nostri volti silvani, piove su le nostre mani ignude, su i nostri vestimenti leggeri, su i freschi pensieri che l'anima schiude novella, su la favola bella che ieri m'illuse, che oggi t'illude, o Ermione.