Tutti i corpi che ho toccato, che ho visto, che ho preso, che ho sognato, tutti addensati nel tuo corpo. O, tu carnale Diotima nel gran simposio dei Greci. Se ne sono andate le flautiste, se ne sono andati filosofi e poeti. I begli efebi dormono già lontano, nei dormitori della luna. Tu sei sola nella mia preghiera innalzata. Un sandalo bianco dai lunghi lacci bianchi è legato alla gamba della sedia. Sei l'oblio assoluto: sei il ricordo assoluto. Sei la non incrinata fragilità. Fa giorno. Fichidindia carnosi scagliati dalle rocce. Un sole rosa immobile sul mare di Monemvasià. La nostra duplice ombra si dissolve alla luce sul pavimento di marmo pieno di cicche calpestate, coi mazzetti di gelsomini infilati negli aghi di pino. O, carnale Diotima, tu che mi hai partorito e che ho partorito, è ora che partoriamo azioni e poesie, che usciamo nel mondo. Davvero, non scordare quando vai al mercato di comprare mele in abbondanza, non quelle d'oro delle Esperidi, ma quelle grosse e rosse che quando affondi nella polpa croccante i tuoi splendidi denti resta impresso, come l'eternità sui libri, pieno di vita il tuo sorriso.
Da anni più nessuno si è occupato del giardino. Eppure quest'anno – maggio, giugno – è rifiorito da solo, è divampato tutto fino all'inferriata – mille rose, mille garofani, mille gerani, mille piselli odorosi – viola, arancione, verde, rosso e giallo, colori... tanto che la donna uscì di nuovo a dare l'acqua col suo vecchio annaffiatoio di nuovo bella, serena, con una convinzione indefinibile. E il giardino la nascose fino alle spalle, l'abbracciò, la conquistò tutta; la sollevò tra le sue braccia. E allora, a mezzogiorno in punto, vedemmo il giardino e la donna con l'annaffiatoio ascendere al cielo e mentre guardavamo in alto, alcune gocce dell'annaffiatoio ci caddero dolcemente sulle guance, sul mento, sulle labbra.
Mi duole in petto la bellezza: mi dolgono le luci nel pomeriggio arrugginito; mi duole questo colore sulla nube – viola plumbeo viola repellente; il mezzo anello della luna che brilla appena – mi duole. Passò un battello. Una barca; i remi; gli innamorati; il tempo. I ragazzi di ieri sono invecchiati. Non tornerai indietro. Serata grigia, luna sottile, – mi fa male il tempo.
Alto eucalipto e ampia luna. Una stella trasale nell'acqua. Cielo bianco, argentato. Pietre, pietre scorticate fino in cima. Accanto, nel basso fondale, s'udí il secondo, il terzo salto d'un pesce. Immensa, estatica orfanezza – libertà.
In modo maldestro, con ago grosso, con filo grosso, si attacca i bottoni della giacca. Parla da solo:
Hai mangiato il tuo pane? Hai dormito tranquillo? Hai potuto parlare? Tendere la mano? Ti sei ricordato di guardare dalla finestra? Hai sorriso al bussare della porta?
Se la morte c'è sempre, è la seconda. La libertà sempre è la prima.