Qui su l'arida schiena Del formidabil monte Sterminator Vesevo, La qual null'altro allegra arbor né fiore, Tuoi cespi solitari intorno spargi, Odorata ginestra, Contenta dei deserti. Anco ti vidi Dè tuoi steli abbellir l'erme contrade Che cingon la cittade La qual fu donna dè mortali un tempo, E del perduto impero Par che col grave e taciturno aspetto Faccian fede e ricordo al passeggero. Or ti riveggo in questo suol, di tristi Lochi e dal mondo abbandonati amante, E d'afflitte fortune ognor compagna. Questi campi cosparsi Di ceneri infeconde, e ricoperti Dell'impietrata lava, Che sotto i passi al peregrin risona; Dove s'annida e si contorce al sole La serpe, e dove al noto Cavernoso covil torna il coniglio; Fur liete ville e colti, E biondeggiàr di spiche, e risonaro Di muggito d'armenti; Fur giardini e palagi, Agli ozi dè potenti Gradito ospizio; e fur città famose Che coi torrenti suoi l'altero monte Dall'ignea bocca fulminando oppresse Con gli abitanti insieme. Or tutto intorno Una ruina involve, Dove tu siedi, o fior gentile, e quasi I danni altrui commiserando, al cielo Di dolcissimo odor mandi un profumo, Che il deserto consola. A queste piagge Venga colui che d'esaltar con lode Il nostro stato ha in uso, e vegga quanto È il gener nostro in cura All'amante natura. E la possanza Qui con giusta misura Anco estimar potrà dell'uman seme, Cui la dura nutrice, ov'ei men teme, Con lieve moto in un momento annulla In parte, e può con moti Poco men lievi ancor subitamente Annichilare in tutto. Dipinte in queste rive Son dell'umana gente Le magnifiche sorti e progressive . Qui mira e qui ti specchia, Secol superbo e sciocco, Che il calle insino allora Dal risorto pensier segnato innanti Abbandonasti, e volti addietro i passi, Del ritornar ti vanti, E procedere il chiami. Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti, Di cui lor sorte rea padre ti fece, Vanno adulando, ancora Ch'a ludibrio talora T'abbian fra sé. Non io Con tal vergogna scenderò sotterra; Ma il disprezzo piuttosto che si serra Di te nel petto mio, Mostrato avrò quanto si possa aperto: Ben ch'io sappia che obblio Preme chi troppo all'età propria increbbe. Di questo mal, che teco Mi fia comune, assai finor mi rido. Libertà vai sognando, e servo a un tempo Vuoi di novo il pensiero, Sol per cui risorgemmo Della barbarie in parte, e per cui solo Si cresce in civiltà, che sola in meglio Guida i pubblici fati. Così ti spiacque il vero Dell'aspra sorte e del depresso loco Che natura ci diè. Per questo il tergo Vigliaccamente rivolgesti al lume Che il fè palese: e, fuggitivo, appelli Vil chi lui segue, e solo Magnanimo colui Che sé schernendo o gli altri, astuto o folle, Fin sopra gli astri il mortal grado estolle. Uom di povero stato e membra inferme Che sia dell'alma generoso ed alto, Non chiama sé né stima Ricco d'or né gagliardo, E di splendida vita o di valente Persona infra la gente Non fa risibil mostra; Ma sé di forza e di tesor mendico Lascia parer senza vergogna, e noma Parlando, apertamente, e di sue cose Fa stima al vero uguale. Magnanimo animale Non credo io già, ma stolto, Quel che nato a perir, nutrito in pene, Dice, a goder son fatto, E di fetido orgoglio Empie le carte, eccelsi fati e nove Felicità, quali il ciel tutto ignora, Non pur quest'orbe, promettendo in terra A popoli che un'onda Di mar commosso, un fiato D'aura maligna, un sotterraneo crollo Distrugge sì, che avanza A gran pena di lor la rimembranza. Nobil natura è quella Che a sollevar s'ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con franca lingua, Nulla al ver detraendo, Confessa il mal che ci fu dato in sorte, E il basso stato e frale; Quella che grande e forte Mostra sé nel soffrir, né gli odii e l'ire Fraterne, ancor più gravi D'ogni altro danno, accresce Alle miserie sue, l'uomo incolpando Del suo dolor, ma dà la colpa a quella Che veramente è rea, che dè mortali Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica; e incontro a questa Congiunta esser pensando, Siccome è il vero, ed ordinata in pria L'umana compagnia, Tutti fra sé confederati estima Gli uomini, e tutti abbraccia Con vero amor, porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e nelle angosce Della guerra comune. Ed alle offese Dell'uomo armar la destra, e laccio porre Al vicino ed inciampo, Stolto crede così qual fora in campo Cinto d'oste contraria, in sul più vivo Incalzar degli assalti, Gl'inimici obbliando, acerbe gare Imprender con gli amici, E sparger fuga e fulminar col brando Infra i propri guerrieri. Così fatti pensieri Quando fien, come fur, palesi al volgo, E quell'orror che primo Contra l'empia natura Strinse i mortali in social catena, Fia ricondotto in parte Da verace saper, l'onesto e il retto Conversar cittadino, E giustizia e pietade, altra radice Avranno allor che non superbe fole, Ove fondata probità del volgo Così star suole in piede Quale star può quel ch'ha in error la sede. Sovente in queste rive, Che, desolate, a bruno Veste il flutto indurato, e par che ondeggi, Seggo la notte; e su la mesta landa In purissimo azzurro Veggo dall'alto fiammeggiar le stelle, Cui di lontan fa specchio Il mare, e tutto di scintille in giro Per lo vòto seren brillare il mondo. E poi che gli occhi a quelle luci appunto, Ch'a lor sembrano un punto, E sono immense, in guisa Che un punto a petto a lor son terra e mare Veracemente; a cui L'uomo non pur, ma questo Globo ove l'uomo è nulla, Sconosciuto è del tutto; e quando miro Quegli ancor più senz'alcun fin remoti Nodi quasi di stelle, Ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo E non la terra sol, ma tutte in uno, Del numero infinite e della mole, Con l'aureo sole insiem, le nostre stelle O sono ignote, o così paion come Essi alla terra, un punto Di luce nebulosa; al pensier mio Che sembri allora, o prole Dell'uomo? E rimembrando Il tuo stato quaggiù, di cui fa segno Il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte, Che te signora e fine Credi tu data al Tutto, e quante volte Favoleggiar ti piacque, in questo oscuro Granel di sabbia, il qual di terra ha nome, Per tua cagion, dell'universe cose Scender gli autori, e conversar sovente Cò tuoi piacevolmente, e che i derisi Sogni rinnovellando, ai saggi insulta Fin la presente età, che in conoscenza Ed in civil costume Sembra tutte avanzar; qual moto allora, Mortal prole infelice, o qual pensiero Verso te finalmente il cor m'assale? Non so se il riso o la pietà prevale. Come d'arbor cadendo un picciol pomo, Cui là nel tardo autunno Maturità senz'altra forza atterra, D'un popol di formiche i dolci alberghi, Cavati in molle gleba Con gran lavoro, e l'opre E le ricchezze che adunate a prova Con lungo affaticar l'assidua gente Avea provvidamente al tempo estivo, Schiaccia, diserta e copre In un punto; così d'alto piombando, Dall'utero tonante Scagliata al ciel profondo, Di ceneri e di pomici e di sassi Notte e ruina, infusa Di bollenti ruscelli O pel montano fianco Furiosa tra l'erba Di liquefatti massi E di metalli e d'infocata arena Scendendo immensa piena, Le cittadi che il mar là su l'estremo Lido aspergea, confuse E infranse e ricoperse In pochi istanti: onde su quelle or pasce La capra, e città nove Sorgon dall'altra banda, a cui sgabello Son le sepolte, e le prostrate mura L'arduo monte al suo piè quasi calpesta. Non ha natura al seme Dell'uom più stima o cura Che alla formica: e se più rara in quello Che nell'altra è la strage, Non avvien ciò d'altronde Fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde. Ben mille ed ottocento Anni varcàr poi che spariro, oppressi Dall'ignea forza, i popolati seggi, E il villanello intento Ai vigneti, che a stento in questi campi Nutre la morta zolla e incenerita, Ancor leva lo sguardo Sospettoso alla vetta Fatal, che nulla mai fatta più mite Ancor siede tremenda, ancor minaccia A lui strage ed ai figli ed agli averi Lor poverelli. E spesso Il meschino in sul tetto Dell'ostel villereccio, alla vagante Aura giacendo tutta notte insonne, E balzando più volte, esplora il corso Del temuto bollor, che si riversa Dall'inesausto grembo Su l'arenoso dorso, a cui riluce Di Capri la marina E di Napoli il porto e Mergellina. E se appressar lo vede, o se nel cupo Del domestico pozzo ode mai l'acqua Fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, Desta la moglie in fretta, e via, con quanto Di lor cose rapir posson, fuggendo, Vede lontan l'usato Suo nido, e il picciol campo, Che gli fu dalla fame unico schermo, Preda al flutto rovente, Che crepitando giunge, e inesorato Durabilmente sovra quei si spiega. Torna al celeste raggio Dopo l'antica obblivion l'estinta Pompei, come sepolto Scheletro, cui di terra Avarizia o pietà rende all'aperto; E dal deserto foro Diritto infra le file Dei mozzi colonnati il peregrino Lunge contempla il bipartito giogo E la cresta fumante, Che alla sparsa ruina ancor minaccia. E nell'orror della secreta notte Per li vacui teatri, Per li templi deformi e per le rotte Case, ove i parti il pipistrello asconde, Come sinistra face Che per vòti palagi atra s'aggiri, Corre il baglior della funerea lava, Che di lontan per l'ombre Rosseggia e i lochi intorno intorno tinge. Così, dell'uomo ignara e dell'etadi Ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno Dopo gli avi i nepoti, Sta natura ognor verde, anzi procede Per sì lungo cammino Che sembra star. Caggiono i regni intanto, Passan genti e linguaggi: ella nol vede: E l'uom d'eternità s'arroga il vanto. E tu, lenta ginestra, Che di selve odorate Queste campagne dispogliate adorni, Anche tu presto alla crudel possanza Soccomberai del sotterraneo foco, Che ritornando al loco Già noto, stenderà l'avaro lembo Su tue molli foreste. E piegherai Sotto il fascio mortal non renitente Il tuo capo innocente: Ma non piegato insino allora indarno Codardamente supplicando innanzi Al futuro oppressor; ma non eretto Con forsennato orgoglio inver le stelle, Né sul deserto, dove E la sede e i natali Non per voler ma per fortuna avesti; Ma più saggia, ma tanto Meno inferma dell'uom, quanto le frali Tue stirpi non credesti O dal fato o da te fatte immortali.
La donzelletta vien dalla campagna, In sul calar del sole, Col suo fascio dell'erba; e reca in mano Un mazzolin di rose e di viole, Onde, siccome suole, Ornare ella si appresta Dimani, al dì di festa, il petto e il crine. Siede con le vicine Su la scala a filar la vecchierella, Incontro là dove si perde il giorno; E novellando vien del suo buon tempo, Quando ai dì della festa ella si ornava, Ed ancor sana e snella Solea danzar la sera intra di quei Ch'ebbe compagni dell'età più bella. Già tutta l'aria imbruna, Torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre Giù dà colli e dà tetti, Al biancheggiar della recente luna. Or la squilla dà segno Della festa che viene; Ed a quel suon diresti Che il cor si riconforta. I fanciulli gridando Su la piazzuola in frotta, E qua e là saltando, Fanno un lieto romore: E intanto riede alla sua parca mensa, Fischiando, il zappatore, E seco pensa al dì del suo riposo. Poi quando intorno è spenta ogni altra face, E tutto l'altro tace, Odi il martel picchiare, odi la sega Del legnaiuol, che veglia Nella chiusa bottega alla lucerna, E s'affretta, e s'adopra Di fornir l'opra anzi il chiarir dell'alba. Questo di sette è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia: Diman tristezza e noia Recheran l'ore, ed al travaglio usato Ciascuno in suo pensier farà ritorno. Garzoncello scherzoso, Cotesta età fiorita È come un giorno d'allegrezza pieno, Giorno chiaro, sereno, Che precorre alla festa di tua vita. Godi, fanciullo mio; stato soave, Stagion lieta è cotesta. Altro dirti non vò; ma la tua festa Ch'anco tardi a venir non ti sia grave.
Sola nel mondo eterna, a cui si volve Ogni creata cosa, In te, morte, si posa Nostra ignuda natura; Lieta no, ma sicura Dall'antico dolor. Profonda notte Nella confusa mente Il pensier grave oscura; Alla speme, al desio, l'arido spirto Lena mancar si sente: Così d'affanno e di temenza è sciolto, E l'età vote e lente Senza tedio consuma. Vivemmo: e qual di paurosa larva, E di sudato sogno, A lattante fanciullo erra nell'alma Confusa ricordanza: Tal memoria n'avanza Del viver nostro: ma da tema è lunge Il rimembrar. Che fummo? Che fu quel punto acerbo Che di vita ebbe nome? Cosa arcana e stupenda Oggi è la vita al pensier nostro, e tale Qual dè vivi al pensiero L'ignota morte appar. Come da morte Vivendo rifuggia, così rifugge Dalla fiamma vitale Nostra ignuda natura; Lieta no ma sicura, Però ch'esser beato Nega ai mortali e nega à morti il fato.
Placida notte, e verecondo raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettose e care Mentre ignote mi fur l'erinni e il fato, Sembianze agli occhi miei; già non arride Spettacol molle ai disperati affetti. Noi l'insueto allor gaudio ravviva Quando per l'etra liquido si volve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso dè Noti, e quando il carro, Grave carro di Giove a noi sul capo, Tonando, il tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar giova trà nembi, e noi la vasta Fuga dè greggi sbigottiti, o d'alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira dell'onda. Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. Ahi di cotesta Infinita beltà parte nessuna Alla misera Saffo i numi e l'empia Sorte non fenno. À tuoi superbi regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E dispregiata amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille invano Supplichevole intendo. A me non ride L'aprico margo, e dall'eterea porta Il mattutino albor; me non il canto Dè colorati augelli, e non dè faggi Il murmure saluta: e dove all'ombra Degl'inchinati salici dispiega Candido rivo il puro seno, al mio Lubrico piè le flessuose linfe Disdegnando sottragge, E preme in fuga l'odorate spiagge. Qual fallo mai, qual sì nefando eccesso Macchiommi anzi il natale, onde sì torvo Il ciel mi fosse e di fortuna il volto? In che peccai bambina, allor che ignara Di misfatto è la vita, onde poi scemo Di giovanezza, e disfiorato, al fuso Dell'indomita Parca si volvesse Il ferrigno mio stame? Incaute voci Spande il tuo labbro: i destinati eventi Move arcano consiglio. Arcano è tutto, Fuor che il nostro dolor. Negletta prole Nascemmo al pianto, e la ragione in grembo Dè celesti si posa. Oh cure, oh speme Dè più verd'anni! Alle sembianze il Padre, Alle amene sembianze eterno regno Diè nelle genti; e per virili imprese, Per dotta lira o canto, Virtù non luce in disadorno ammanto. Morremo. Il velo indegno a terra sparto Rifuggirà l'ignudo animo a Dite, E il crudo fallo emenderà del cieco Dispensator dè casi. E tu cui lungo Amore indarno, e lunga fede, e vano D'implacato desio furor mi strinse, Vivi felice, se felice in terra Visse nato mortal. Me non asperse Del soave licor del doglio avaro Giove, poi che perir gl'inganni e il sogno Della mia fanciullezza. Ogni più lieto Giorno di nostra età primo s'invola. Sottentra il morbo, e la vecchiezza, e l'ombra Della gelida morte. Ecco di tante Sperate palme e dilettosi errori, Il Tartaro m'avanza; e il prode ingegno Han la tenaria Diva, E l'atra notte, e la silente riva.
Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena ogni montagna. O donna mia, Già tace ogni sentiero, e pei balconi Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che t'accolse agevol sonno Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e già non sai né pensi Quanta piaga m'apristi in mezzo al petto. Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno Appare in vista, a salutar m'affaccio, E l'antica natura onnipossente, Che mi fece all'affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e d'altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. Questo dì fu solenne: or dà trastulli Prendi riposo; e forse ti rimembra In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti Piacquero a te: non io, non già ch'io speri, Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo Quanto a viver mi resti, e qui per terra Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi In così verde etate! Ahi, per la via Odo non lunge il solitario canto Dell'artigian, che riede a tarda notte, Dopo i sollazzi, al suo povero ostello; E fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al mondo passa, E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito Il dì festivo, ed al festivo il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano accidente. Or dov'è il suono Di què popoli antichi? Or dov'è il grido Dè nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e l'armi, e il fragorio Che n'andò per la terra e l'oceano? Tutto è pace e silenzio, e tutto posa Il mondo, e più di lor non si ragiona. Nella mia prima età, quando s'aspetta Bramosamente il dì festivo, or poscia Ch'egli era spento, io doloroso, in veglia, Premea le piume; ed alla tarda notte Un canto che s'udia per li sentieri Lontanando morire a poco a poco, Già similmente mi stringeva il core.
Poi che divelta, nella tracia polve Giacque ruina immensa L'italica virtute, onde alle valli D'Esperia verde, e al tiberino lido, Il calpestio dè barbari cavalli Prepara il fato, e dalle selve ignude Cui l'Orsa algida preme, A spezzar le romane inclite mura Chiama i gotici brandi; Sudato, e molle di fraterno sangue, Bruto per l'atra notte in erma sede, Fermo già di morir, gl'inesorandi Numi e l'averno accusa, E di feroci note Invan la sonnolenta aura percote.
Stolta virtù, le cave nebbie, i campi Dell'inquiete larve Son le tue scole, e ti si volge a tergo Il pentimento. A voi, marmorei numi, (Se numi avete in Flegetonte albergo O su le nubi) a voi ludibrio e scherno È la prole infelice A cui templi chiedeste, e frodolenta Legge al mortale insulta. Dunque tanto i celesti odii commove La terrena pietà? dunque degli empi Siedi, Giove, a tutela? e quando esulta Per l'aere il nembo, e quando Il tuon rapido spingi, Né giusti e pii la sacra fiamma stringi?
Preme il destino invitto e la ferrata Necessità gl'infermi Schiavi di morte: e se a cessar non vale Gli oltraggi lor, dè necessarii danni Si consola il plebeo. Men duro è il male Che riparo non ha? dolor non sente Chi di speranza è nudo? Guerra mortale, eterna, o fato indegno, Teco il prode guerreggia, Di cedere inesperto; e la tiranna Tua destra, allor che vincitrice il grava, Indomito scrollando si pompeggia, Quando nell'alto lato L'amaro ferro intride, E maligno alle nere ombre sorride.
Spiace agli Dei chi violento irrompe Nel Tartaro. Non fora Tanto valor né molli eterni petti. Forse i travagli nostri, e forse il cielo I casi acerbi e gl'infelici affetti Giocondo agli ozi suoi spettacol pose? Non fra sciagure e colpe, Ma libera né boschi e pura etade Natura a noi prescrisse, Reina un tempo e Diva. Or poi ch'a terra Sparse i regni beati empio costume, E il viver macro ad altre leggi addisse; Quando gl'infausti giorni Virile alma ricusa, Riede natura, e il non suo dardo accusa?
Di colpa ignare e dè lor proprii danni Le fortunate belve Serena adduce al non previsto passo La tarda età. Ma se spezzar la fronte Né rudi tronchi, o da montano sasso Dare al vento precipiti le membra, Lor suadesse affanno; Al misero desio nulla contesa Legge arcana farebbe O tenebroso ingegno. A voi, fra quante Stirpi il cielo avvivò, soli fra tutte, Figli di Prometeo, la vita increbbe; A voi le morte ripe, Se il fato ignavo pende, Soli, o miseri, a voi Giove contende.
E tu dal mar cui nostro sangue irriga, Candida luna, sorgi, E l'inquieta notte e la funesta All'ausonio valor campagna esplori. Cognati petti il vincitor calpesta, Fremono i poggi, dalle somme vette Roma antica ruina; Tu sì placida sei? Tu la nascente Lavinia prole, e gli anni Lieti vedesti, e i memorandi allori; E tu su l'alpe l'immutato raggio Tacita verserai quando né danni Del servo italo nome, Sotto barbaro piede Rintronerà quella solinga sede.
Ecco tra nudi sassi o in verde ramo E la fera e l'augello, Del consueto obblio gravido il petto, L'alta ruina ignora e le mutate Sorti del mondo: e come prima il tetto Rosseggerà del villanello industre, Al mattutino canto Quel desterà le valli, e per le balze Quella l'inferma plebe Agiterà delle minori belve. Oh casi! oh gener vano! abbietta parte Siam delle cose; e non le tinte glebe, Non gli ululati spechi Turbò nostra sciagura, Né scolorò le stelle umana cura.
Non io d'Olimpo o di Cocito i sordi Regi, o la terra indegna, E non la notte moribondo appello; Non te, dell'atra morte ultimo raggio, Conscia futura età. Sdegnoso avello Placàr singulti, ornàr parole e doni Di vil caterva? In peggio Precipitano i tempi; e mal s'affida A putridi nepoti L'onor d'egregie menti e la suprema Dè miseri vendetta. A me d'intorno Le penne il bruno augello avido roti; Prema la fera, e il nembo Tratti l'ignota spoglia; E l'aura il nome e la memoria accoglia.
Ahi ahi, ma conosciuto il mondo non cresce, anzi scema, e assai più vasto l'etra sonante e l'alma terra e il mare al fanciullin, che non al saggio appare.
Di gloria il viso e la gioconda voce, Garzon bennato, apprendi, E quanto al femminile ozio sovrasti La sudata virtude. Attendi attendi, Magnanimo campion (s'alla veloce Piena degli anni il tuo valor contrasti La spoglia di tuo nome), attendi e il core Movi ad alto desio. Te l'echeggiante Arena e il circo, e te fremendo appella Ai fatti illustri il popolar favore; Te rigoglioso dell'età novella Oggi la patria cara Gli antichi esempi a rinnovar prepara. Del barbarico sangue in Maratona Non colorò la destra Quei che gli atleti ignudi e il campo eleo, Che stupido mirò l'ardua palestra, Né la palma beata e la corona D'emula brama il punse. E nell'Alfeo Forse le chiome polverose e i fianchi Delle cavalle vincitrici asterse Tal che le greche insegne e il greco acciaro Guidò dè Medi fuggitivi e stanchi Nelle pallide torme; onde sonaro Di sconsolato grido L'alto sen dell'Eufrate e il servo lido. Vano dirai quel che disserra e scote Della virtù nativa Le riposte faville? E che del fioco Spirto vital negli egri petti avviva Il caduco fervor? Le meste rote Da poi che Febo instiga, altro che gioco Son l'opre dè mortali? Ed è men vano Della menzogna il vero? A noi di lieti Inganni e di felici ombre soccorse Natura stessa: e là dove l'insano Costume ai forti errori esca non porse, Negli ozi oscuri e nudi Mutò la gente i gloriosi studi. Tempo forse verrà ch'alle ruine Delle italiche moli Insultino gli armenti, e che l'aratro Sentano i sette colli; e pochi Soli Forse fien volti, e le città latine Abiterà la cauta volpe, e l'atro Bosco mormorerà fra le alte mura; Se la funesta delle patrie cose Obblivion dalle perverse menti Non isgombrano i fati, e la matura Clade non torce dalle abbiette genti Il ciel fatto cortese Dal rimembrar delle passate imprese. Alla patria infelice, o buon garzone, Sopravviver ti doglia. Chiaro per lei stato saresti allora Che del serto fulgea, di ch'ella è spoglia, Nostra colpa e fatal. Passò stagione; Che nullo di tal madre oggi s'onora: Ma per te stesso al polo ergi la mente. Nostra vita a che val? Solo a spregiarla: Beata allor che nè perigli avvolta, Se stessa obblia, né delle putri e lente Ore il danno misura e il flutto ascolta; Beata allor che il piede Spinto al varco leteo, più grata riede.
O patria mia, vedo le mura e gli archi E le colonne e i simulacri e l'erme Torri degli avi nostri, Ma la la gloria non vedo, Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi I nostri padri antichi. Or fatta inerme Nuda la fronte e nudo il petto mostri, Oimè quante ferite, Che lívidor, che sangue! Oh qual ti veggio, Formesissima donna! Io chiedo al cielo e al mondo: dite dite; Chi la ridusse a tale? E questo è peggio, Che di catene ha carche ambe le braccia, Sì che sparte le chiome e senza velo Siede in terra negletta e sconsolata, Nascondendo la faccia Tra le ginocchia, e piange. Piangi, che ben hai donde, Italia mia, Le genti a vincer nata E nella fausta sorte e nella ria. Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive, Mai non potrebbe il pianto Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno; Che fosti donna, or sei povera ancella. Chi di te parla o scrive, Che, rimembrando il tuo passato vanto, Non dica: già fu grande, or non è quella? Perché, perché? Dov'è la forza antica? Dove l'armi e il valore e la costanza? Chi ti discinse il brando? Chi ti tradì? Qual arte o qual fatica 0 qual tanta possanza, Valse a spogliarti il manto e l'auree bende? Come cadesti o quando Da tanta altezza in così basso loco? Nessun pugna per te? Non ti difende Nessun dè tuoi? L'armi, qua l'armi: ío solo Combatterà, procomberò sol io. Dammi, o ciel, che sia foco Agl'italici petti il sangue mio. Dove sono i tuoi figli?. Odo suon d'armi E di carri e di voci e di timballi In estranie contrade Pugnano i tuoi figliuoli. Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi, Un fluttuar di fanti e di cavalli, E fumo e polve, e luccicar di spade Come tra nebbia lampi. Nè ti conforti e i tremebondi lumi Piegar non soffri al dubitoso evento? A che pugna in quei campi L'itata gioventude? 0 numi, o numi Pugnan per altra terra itali acciari. Oh misero colui che in guerra è spento, Non per li patrii lidi e per la pia Consorte e i figli cari, Ma da nemici altrui Per altra gente, e non può dir morendo Alma terra natia, La vita che mi desti ecco ti rendo. Oh venturose e care e benedette L'antiche età, che a morte Per la patria correan le genti a squadre E voi sempre onorate e gloriose, 0 tessaliche strette, Dove la Persia e il fato assai men forte Fu di poch'alme franche e generose! Lo credo che le piante e i sassi e l'onda E le montagne vostre al passeggere Con indistinta voce Narrin siccome tutta quella sponda Coprir le invitte schiere Dè corpi ch'alla Grecia eran devoti. Allor, vile e feroce, Serse per l'Ellesponto si fuggia, Fatto ludibrio agli ultimi nepoti; E sul colle d'Antela, ove morendo Si sottrasse da morte il santo stuolo, Simonide salia, Guardando l'etra e la marina e il suolo. E di lacrime sparso ambe le guance, E il petto ansante, e vacillante il piede, Toglicasi in man la lira: Beatissimi voi, Ch'offriste il petto alle nemiche lance Per amor di costei ch'al Sol vi diede; Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira Nell'armi e nè perigli Qual tanto amor le giovanette menti, Qual nell'acerbo fato amor vi trasse? Come si lieta, o figli, L'ora estrema vi parve, onde ridenti Correste al passo lacrimoso e, duro? Parea ch'a danza e non a morte andasse Ciascun dè vostri, o a splendido convito: Ma v'attendea lo scuro Tartaro, e l'ond'a morta; Nè le spose vi foro o i figli accanto Quando su l'aspro lito Senza baci moriste e senza pianto. Ma non senza dè Persi orrida pena Ed immortale angoscia. Come lion di tori entro una mandra Or salta a quello in tergo e sì gli scava Con le zanne la schiena, Or questo fianco addenta or quella coscia; Tal fra le Perse torme infuriava L'ira dè greci petti e la virtute. Vè cavalli supini e cavalieri; Vedi intralciare ai vinti La fuga i carri e le tende cadute, E correr frà primieri Pallido e scapigliato esso tiranno; vè come infusi e tintí Del barbarico sangue i greci eroi, Cagione ai Persi d'infinito affanno, A poco a poco vinti dalle piaghe, L'un sopra l'altro cade. Oh viva, oh viva: Beatissimi voi Mentre nel mondo si favelli o scriva. Prima divelte, in mar precipitando, Spente nell'imo strideran le stelle, Che la memoria e il vostro Amor trascorra o scemi. La vostra tomba è un'ara; e qua mostrando Verran le madri ai parvoli le belle Orme dei vostro sangue. Ecco io mi prostro, 0 benedetti, al suolo, E bacio questi sassi e queste zolle, Che fien lodate e chiare eternamente Dall'uno all'altro polo. Deh foss'io pur con voi qui sotto, e molle Fosse del sangue mio quest'alma terra. Che se il fato è diverso, e non consente Ch'io per la Grecia i mororibondi lumi Chiuda prostrato in guerra, Così la vereconda Fama del vostro vate appo i futuri Possa, volendo i numi, Tanto durar quanto la, vostra duri.