Lina, brumaio torbido inclina, Ne l'aer gelido monta la sera: E a me ne l'anima fiorisce, o Lina, La primavera. In lume roseo, vedi, il nivale Fedriade vertice sorge e sfavilla, E di Castalia l'onda vocale Mormora e brilla. Delfo a' suoi tripodi chiaro sonanti Rivoca Apolline co' nuovi soli, Con i virginei peana e i canti De' rusignoli. Da gl'iperborei lidi al pio suolo Ei riede, a' lauri dal pigro gelo: Due cigni il traggono candidi a volo: Sorride il cielo. Al capo ha l'aurea benda di Giove; Ma nel crin florido l'aura sospira E con un tremito d'amor gli move In man la lira. D'intorno girano come in leggera Danza le Cicladi patria del nume, Da lungi plaudono Cipro e Citera Con bianche spume. E un lieve il séguita pe 'l grande Egeo Legno, a purpuree vele, canoro: Armato rčggelo per l'onde Alceo Dal plettro d'oro. Saffo dal candido petto anelante A l'aura ambrosia che dal dio vola, Dal riso morbido, da l'ondeggiante Crin di viola, In mezzo assidesi. Lina, quieti I remi pendono: sali il naviglio. Io, de gli eolii sacri poeti Ultimo figlio, Io meco traggoti per l'aure achive: Odi le cetere tinnir: montiamo: Fuggiam le occidue macchiate rive, Dimentichiamo.
Te redimito di fior purpurei april te vide su 'l colle emergere da 'l solco di Romolo torva riguardante su i selvaggi piani: te dopo tanta forza di secoli aprile irraggia, sublime, massima, e il sole e l'Italia saluta te, Flora di nostra gente, o Roma. Se al Campidoglio non pił la vergine tacita sale dietro il pontefice né pił per Via Sacra il trionfo piega i quattro candidi cavalli, questa del Fņro tua solitudine ogni rumore vince, ogni gloria; e tutto che al mondo č civile, grande, augusto, egli č romano ancora. Salve, dea Roma! Chi disconósceti cerchiato ha il senno di fredda tenebra, e a lui nel reo cuore germoglia torpida la selva di barbarie. Salve, dea Roma! Chinato a i ruderi del Fņro, io seguo con dolci lacrime e adoro i tuoi sparsi vestigi, patria, diva, santa genitrice. Son cittadino per te d'Italia, per te poeta, madre de i popoli, che desti il tuo spirito al mondo, che Italia improntasti di tua gloria. Ecco, a te questa, che tu di libere genti facesti nome uno, Italia, ritorna, e s'abbraccia al tuo petto, affisa nč tuoi d'aquila occhi. E tu dal colle fatal pe 'l tacito Fņro le braccia porgi marmoree, a la figlia liberatrice additando le colonne e gli archi: gli archi che nuovi trionfi aspettano non pił di regi, non pił di cesari, e non di catene attorcenti braccia umane su gli eburnei carri; ma il tuo trionfo, popol d'Italia, su l'etą nera, su l'etą barbara, su i mostri onde tu con serena giustizia farai franche le genti. O Italia, o Roma! Quel giorno, placido tornerą il cielo su 'l Fņro, e cantici di gloria, di gloria, di gloria correran per l'infinito azzurro.
Come, quando sł campi arsi la pia Luna imminente il gelo estivo infonde, Mormora al bianco lume il rio tra via Riscintillando tra le brevi sponde; E il secreto usignuolo entro le fronde Empie il vasto seren di melodia, Ascolta il viatore ed a le bionde Chiome che amņ ripensa, e il tempo oblia; Ed orba madre, che doleasi in vano, Da un avel gli occhi al ciel lucente gira E in quel diffuso albor l'animo queta; Ridono in tanto i monti e il mar lontano, Tra i grandi arbor la fresca aura sospira: Tale il tuo verso a me, divin poeta.
Dolce paese, onde portai conforme L'abito fiero e lo sdegnoso canto E il petto ov'odio e amor mai non s'addorme, pur ti riveggo e il cuor mi balza tanto. Pace dicono al cuor le tue colline Con le nebbie sfumanti e il verde piano Ridente ne le piogge mattutine.
Ma ci fu dunque un giorno Su questa terra il sole? Ci fur rose e viole, Luce, sorriso, ardor? Ma ci fu dunque un giorno La dolce giovinezza, La gloria e la bellezza, Fede, virtude, amor? Ciņ forse avvenne a i tempi D'Omero e di Valmichi: Ma quei son tempi antichi, Il sole or non č pił. E questa ov'io m'avvolgo Nebbia di verno immondo Č il cenere d'un mondo Che forse un giorno fu.
O arcadi e romantici fratelli Ne la castroneria che insiem vi lega, Deh finite, per dio, la trista bega, E sturate il forame de' cervelli. Del vostro pianto crescono i ruscelli E i fiumi e i laghi sķ che l'alpe annega, E stanco č il Gusto a batter chiavistelli A questa vostra misera bottega. Sentite in confidenza: i lepri e i ghiri Son lepri e ghiri, e non son mai leoni: Né Byron si rimpasta co' deliri, Né Shakespeare si rifą co' farfalloni, Né si fabbrica Schiller co' sospiri, Né Cristi e sagrestie fanno il Manzoni. Dopo tanti sermoni, O baironiani, o cristiani, o ebrei, Ed o voi che credete ne gli dči, Lasciate i piagnistei; E, se pił al mondo non avete spene, Fatevi un po' il servizio d'Origene.
I Avanti, avanti, o sauro destrier de la canzone! L'aspra tua chioma porgimi, ch'io salti anche in arcione Indomito destrier. A noi la polve e l'ansia del corso, e i rotti venti, E il lampo de le selici percosse, e de i torrenti L'urlo solingo e fier. I bei ginnetti italici han pettinati crini, Le constellate e morbide aiuole dč giardini Sono il lor dolce agon: Ivi essi caracollano in faccia a i loro amori, La giuba a tempo fluttua vaga tra i nastri e i fiori De le fanfare al suon; E, se lungi la polvere scorgon del nostro corso, Il picciol collo inarcano e masticando il morso Par che rignino - Ohibņ! - Ma l'alfana che strascica su l'orlo de la via Sotto gualdrappe e cingoli la lunga anatomia D'un corpo che invecchiņ, Ripensando gli scalpiti dč corteggi e le stalle Dč tepid'ozi e l'adipe de la pasciuta valle, Guarda con muto orror. E noi corriamo ą torridi soli, ą cieli stellati, Per note plaghe e incognite, quai cavalier fatati, Dietro un velato amor. Avanti, avanti, o sauro destrier, mio forte amico! Non vedi tu le parie forme del tempo antico Accennarne colą ? Non vedi tu d'Angelica ridente, o amico, il velo Solcar come una candida nube l'estremo cielo? Oh gloria, oh libertą!
II Ahi, dą prim'anni, o gloria, nascosi del mio cuore Nč superbi silenzii il tuo superbo amore. Le fronti alte del lauro nel pensoso splendor Mi sfolgorar dą gelidi marmi nel petto un raggio, Ed obliai le vergini danzanti al sol di maggio E i lampi dč bianchi omeri sotto le chiome d'ņr. E tutto ciņ che facile allor prometton gli anni Io 'l diedi per un impeto lacrimoso d'affanni, Per un amplesso aereo in faccia a l'avvenir. O immane statua bronzea su dirupato monte, Solo i grandi t'aggiungono, per declinar la fronte Fredda su 'l tuo fredd'omero e lassi ivi morir. A pił frequente palpito di umani odii e d'amori Meglio il petto m'accesero nč lor severi ardori Ultime dee superstiti giustizia e libertą; E uscir credeami italico vate a la nuova etade, Le cui strofe al ciel vibrano come rugghianti spade, E il canto, ala d'incendio, divora i boschi e va. Ahi, lieve i duri muscoli sfiora la rima alata! Co 'l tuon de l'arma ferrea nel destro pugno arcata, Gentil leopardo lanciasi Camillo Demulčn, E cade la Bastiglia. Solo Danton dislaccia, Per rivelarti ą popoli, con le taurine braccia, repubblica vergine, l'amazonio tuo sen. A noi le pugne inutili. Tu cadevi, o Mameli, Con la pupilla cerula fisa a gli aperti cieli Tra un inno e una battaglia cadevi; e come un fior Ti rideva da l'anima la fede allor che il bello E biondo capo languido chinavi, e te, fratello, Copria l'ombra siderea di Roma e i tre color; Ed al fuggir de l'anima su la pallida faccia Protendea la repubblica santa le aperte braccia Diritta in fra i romulei colli e l'occiduo sol. Ma io d'intorno premere veggo schiavi e tiranni, Ma io su 'l capo stridere m'odo fuggenti gli anni Che mai canta, susurrano, costui torbido e sol? Ei canta e culla i queruli mostri de la sua mente, E quel che vive e s'agita nel mondo egli non sente. O popolo d'Italia, vita del mio pensier, O popolo d'Italia, vecchio titano ignavo, Vile io ti dissi in faccia, tu mi gridasti: Bravo; E dč miei versi funebri t'incoroni il bicchier.
III Avanti, avanti, o indomito destrier de gl'inni alato ! Obliar vņ nel rapido corso l'inerte fato, I gravi e oscuri dķ. Ricordi tu, bel sauro, quando al tuo primo salto I falchi salutarono augurando ne l'alto E il bufolo muggķ? Ricordi tu le vedove piagge del mar toscano, Ove china su 'l nubilo inseminato piano La torre feudal Con lunga ombra di tedio da i colli arsicci e foschi Veglia de le rasenie cittadi in mezzo ą boschi Il sonno sepolcral, Mentre tormenta languido sirocco gli assetati Caprifichi che ondeggiano su i gran massi quadrati Verdi tra il cielo e il mar, Su i gran massi cui vigile il mercator tirreno Saliva, le fenicie rosse vele nel seno Azzurro ad aspettar? Ricordi Populonia, e Roselle, e la fiera Torre di Donoratico a la cui porta nera Conte Ugolin bussņ Con lo scudo e con l'aquile a la Meloria infrante, Il grand'elmo togliendosi da la fronte che Dante Ne l'inferno ammirņ? Or (dolce a la memoria) una quercia su 'l ponte Levatoio verdeggia e bisbiglia, e del conte Novella il cacciator Quando al purpureo vespero su la bertesca infida I falchetti famelici empiono il ciel di strida E il can guarda al clamor. Lą tu crescesti, o sauro destrier de gl'inni, meco; E la pietra pelasgica ed il tirreno speco Furo il mio solo altar E con me nel silenzio meridian fulgente I lucumoni e gli ąuguri de la mia prima gente Veniano a conversar. E tu pascevi, o alivolo corridore, la biada Che nč solchi de i secoli aperti con la spada Del console roman Dante, etrusco pontefice redivivo, gettava; Onde al cielo il tuo florido terzo maggio esultava, Comune italian, Tra le germane faide e i salmi nazareni Esultava nel libero lavoro e ne i sereni Canti dč mietitor. Chi di quell'orzo il pascesi, o nobile corsiero, Ha forti nervi e muscoli, ha gentile ed intero Nel sano petto il cor. Dammi or dunque, apollinea fiera, l'alato dorso: Ecco, tutte le redini io ti libero al corso: Corriam, fiera gentil. Corriam de gli avversarii sovra le teste e i petti, Dč mostri il sangue imporpori i tuoi ferrei garetti; E a noi rida l'april, L'april dč colli italici vaghi di mčssi e fiori, L'april santo de l'anima piena di nuovi amori, L'aprile del pensier. Voliam, sin che la folgore di Giove tra la rotta Nube ci arda e purifichi, o che il torrente inghiotta Cavallo e cavalier, O ch'io discenda placido dal tuo stellante arcione, Con l'occhio ancora gravido di luce e visione, Su 'l toscano mio suol, Ed al fraterno tumolo posi da la fatica, Gustando tu il trifoglio da una bell'urna antica Verso il morente sol.