Lina, brumaio torbido inclina, Ne l'aer gelido monta la sera: E a me ne l'anima fiorisce, o Lina, La primavera. In lume roseo, vedi, il nivale Fedriade vertice sorge e sfavilla, E di Castalia l'onda vocale Mormora e brilla. Delfo a' suoi tripodi chiaro sonanti Rivoca Apolline co' nuovi soli, Con i virginei peana e i canti De' rusignoli. Da gl'iperborei lidi al pio suolo Ei riede, a' lauri dal pigro gelo: Due cigni il traggono candidi a volo: Sorride il cielo. Al capo ha l'aurea benda di Giove; Ma nel crin florido l'aura sospira E con un tremito d'amor gli move In man la lira. D'intorno girano come in leggera Danza le Cicladi patria del nume, Da lungi plaudono Cipro e Citera Con bianche spume. E un lieve il séguita pe 'l grande Egeo Legno, a purpuree vele, canoro: Armato règgelo per l'onde Alceo Dal plettro d'oro. Saffo dal candido petto anelante A l'aura ambrosia che dal dio vola, Dal riso morbido, da l'ondeggiante Crin di viola, In mezzo assidesi. Lina, quieti I remi pendono: sali il naviglio. Io, de gli eolii sacri poeti Ultimo figlio, Io meco traggoti per l'aure achive: Odi le cetere tinnir: montiamo: Fuggiam le occidue macchiate rive, Dimentichiamo.
Corron tra 'l Celio fosche e l'Aventino le nubi: il vento dal pian tristo move umido: in fondo stanno i monti albani bianchi di nevi. A le cineree trecce alzato il velo verde, nel libro una britanna cerca queste minacce di romane mura al cielo e al tempo. Continui, densi, neri, crocidanti versansi i corvi come fluttuando contro i due muri ch'a più ardua sfida levansi enormi. "Vecchi giganti" par che insista irato l'augure stormo "a che tentate il cielo? " Grave per l'aure vien da Laterano suon di campane. Ed un ciociaro, nel mantello avvolto, grave fischiando tra la folta barba, passa e non guarda. Febbre, io qui t'invoco, nume presente. Se ti fûr cari i grandi occhi piangenti e de le madri le protese braccia te deprecanti, o dea, da 'l reclinato capo de i figli: se ti fu cara su 'l Palazio eccelso l'ara vetusta (ancor lambiva il Tebro l'evandrio colle, e veleggiando a sera tra 'l Campidoglio e l'Aventino il reduce quirite guardava in alto la città quadrata dal sole arrisa, e mormorava un lento saturnio carme); Febbre, m'ascolta. Gli uomini novelli quinci respingi e lor picciole cose: religïoso è questo orror: la dea Roma qui dorme. Poggiata il capo al Palatino augusto, tra 'l Celio aperte e l'Aventin le braccia, per la Capena i forti omeri stende a l'Appia via.
I cipressi che a Bólgheri alti e schietti Van da San Guido in duplice filar, Quasi in corsa giganti giovinetti Mi balzarono incontro e mi guardar. Mi riconobbero, e - Ben torni omai - Bisbigliaron vèr'me co 'l capo chino - Perché non scendi? Perché non ristai ? Fresca è la sera e a te noto il cammino. Oh sièditi a le nostre ombre odorate Ove soffia dal mare il maestrale: Ira non ti serbiam de le sassate Tue d'una volta: oh non facean già male! Nidi portiamo ancor di rusignoli: Deh perché fuggi rapido cosí ? Le passere la sera intreccian voli A noi d'intorno ancora. Oh resta qui! - - Bei cipressetti, cipressetti miei, Fedeli amici d'un tempo migliore, Oh di che cuor con voi mi resterei - Guardando lor rispondeva - oh di che cuore ! Ma, cipressetti miei, lasciatem'ire: Or non è piú quel tempo e quell'età. Se voi sapeste!... via, non fo per dire, Ma oggi sono una celebrità. E so legger di greco e di latino, E scrivo e scrivo, e ho molte altre virtú: Non son piú, cipressetti, un birichino, E sassi in specie non ne tiro piú. E massime a le piante. - Un mormorio Pè dubitanti vertici ondeggiò E il dí cadente con un ghigno pio Tra i verdi cupi roseo brillò. Intesi allora che i cipressi e il sole Una gentil pietade avean di me, E presto il mormorio si fè parole: - Ben lo sappiamo: un pover uom tu sè. Ben lo sappiamo, e il vento ce lo disse Che rapisce de gli uomini i sospir, Come dentro al tuo petto eterne risse Ardon che tu né sai né puoi lenir. A le querce ed a noi qui puoi contare L'umana tua tristezza e il vostro duol. Vedi come pacato e azzurro è il mare, Come ridente a lui discende il sol! E come questo occaso è pien di voli, Com'è allegro dè passeri il garrire! A notte canteranno i rusignoli: Rimanti, e i rei fantasmi oh non seguire; I rei fantasmi che dà fondi neri De i cuor vostri battuti dal pensier Guizzan come da i vostri cimiteri Putride fiamme innanzi al passegger. Rimanti; e noi, dimani, a mezzo il giorno, Che de le grandi querce a l'ombra stan Ammusando i cavalli e intorno intorno Tutto è silenzio ne l'ardente pian, Ti canteremo noi cipressi i cori Che vanno eterni fra la terra e il cielo: Da quegli olmi le ninfe usciran fuori Te ventilando co 'l lor bianco velo; E Pan l'eterno che su l'erme alture A quell'ora e ne i pian solingo va Il dissidio, o mortal, de le tue cure Ne la diva armonia sommergerà. - Ed io - Lontano, oltre Apennin, m'aspetta La Tittí - rispondea; - lasciatem'ire. È la Tittí come una passeretta, Ma non ha penne per il suo vestire. E mangia altro che bacche di cipresso; Né io sono per anche un manzoniano Che tiri quattro paghe per il lesso. Addio, cipressi! Addio, dolce mio piano! - - Che vuoi che diciam dunque al cimitero Dove la nonna tua sepolta sta? - E fuggíano, e pareano un corteo nero Che brontolando in fretta in fretta va. Di cima al poggio allor, dal cimitero, Giú dè cipressi per la verde via, Alta, solenne, vestita di nero Parvemi riveder nonna Lucia: La signora Lucia, da la cui bocca, Tra l'ondeggiar de i candidi capelli, La favella toscana, ch'è sí sciocca Nel manzonismo de gli stenterelli, Canora discendea, co 'l mesto accento De la Versilia che nel cuor mi sta, Come da un sirventese del trecento, Piena di forza e di soavità. O nonna, o nonna! Deh com'era bella Quand'ero bimbo! Ditemela ancor, Ditela a quest'uom savio la novella Di lei che cerca il suo perduto amor! – Sette paia di scarpe ho consumate Di tutto ferro per te ritrovare: Sette verghe di ferro ho logorate Per appoggiarmi nel fatale andare: Sette fiasche di lacrime ho colmate, Sette lunghi anni, di lacrime amare: Tu dormi a le mie grida disperate, E il gallo canta, e non ti vuoi svegliare. - Deh come bella, o nonna, e come vera È la novella ancor! Proprio cosí. E quello che cercai mattina e sera Tanti e tanti anni in vano, è forse qui, Sotto questi cipressi, ove non spero, Ove non penso di posarmi piú: Forse, nonna, è nel vostro cimitero Tra quegli altri cipressi ermo là su. Ansimando fuggía la vaporiera Mentr'io cosí piangeva entro il mio cuore; E di polledri una leggiadra schiera Annitrendo correa lieta al rumore. Ma un asin bigio, rosicchiando un cardo Rosso e turchino, non si scomodò: Tutto quel chiasso ei non degnò d'un guardo E a brucar serio e lento seguitò.
A te, de l'essere Principio immenso, Materia e spirito, Ragione e senso; Mentre nè calici Il vin scintilla Sì come l'anima Ne la pupilla; Mentre sorridono La terra e il sole E si ricambiano D'amor parole, E corre un fremito D'imene arcano Dà monti e palpita Fecondo il piano; A te disfrenasi Il verso ardito, Te invoco, o Satana, Re del convito. Via l'aspersorio, Prete, e il tuo metro! No, prete! Satana Non torna indietro! Vedi: la ruggine Rode a Michele Il brando mistico, Ed il fedele Spennato arcangelo Cade nel vano. Ghiacciato è il fulmine A Geova in mano. Meteore pallide, Pianeti spenti, Piovono gli angeli Da i firmamenti. Ne la materia Che mai non dorme, Re de i fenomeni, Re de le forme, Sol vive Satana. Ei tien l'impero Nel lampo tremulo D'un occhio nero, O ver che languido Sfugga e resista, Od acre ed umido Pròvochi, insista. Brilla dè grappoli Nel lieto sangue, Per cui la rapida Gioia non langue, Che la fuggevole Vita ristora, Che il dolor proroga, Che amor ne incora. Tu spiri, o Satana, Nel verso mio, Se dal sen rompemi Sfidando il dio Dè rei pontefici, Dè re cruenti; E come fulmine Scuoti le menti. A te, Agramainio, Adone, Astarte, E marmi vissero E tele e carte, Quando le ioniche Aure serene Beò la Venere Anadiomene. A te del Libano Fremean le piante! De l'alma Cipride Risorto amante A te ferveano Le danze e i cori, A te i virginei Candidi amori, Tra le odorifere Palme d'Idume, Dove biancheggiano Le ciprie spume. Che val se barbaro Il nazareno Furor de l'agapi Dal rito osceno Con sacra fiaccola I templi t'arse E i segni argolici A terra sparse? Te accolse profugo Tra gli dèi lari La plebe memore Ne i casolari. Quindi un femineo Sen palpitante Empiendo, fervido Nurne ed amante, La strega pallida D'eterna cura Volgi a soccorrere L'egra natura. Tu a l'occhio immobile De l'alchimista, Tu de l'indocile Mago a la vista, Del chiostro torpido Oltre i cancelli, Riveli i fulgidi Cieli novelli. A la Tebaide Te ne le cose Fuggendo, il monaco Triste s'ascose. Dal tuo tramite Alma divisa, Benigno è Satana; Ecco Eloisa. In van ti maceri Ne l'aspro sacco: Il verso ei mormora Di Maro e Flacco Tra la davidica Nenia ed il pianto; E, forme delfiche, A te da canto, Rosee ne l'orrida Compagnia nera Mena Licoride, Mena Glicera. Ma d'altre imagini D'età più bella Talor si popola L'insonne cella. Ei, da le pagine Di Livio, ardenti Tribuni, consoli, Turbe frementi Sveglia; e fantastico D'italo orgoglio Te spinge, o monaco, Su 'l Campidoglio. E voi, che il rabido Rogo non strusse, Voci fatidiche, Wicleff ed Husse, A l'aura il vigile Grido mandate: S'innova il secolo, Piena è l'etate. E già già tremano Mitre e corone: Dal chiostro brontola La ribellione, E pugna e prèdica Sotto la stola Di frà Girolamo Savonarola. Gittò la tonaca Martin Lutero; Gitta i tuoi vincoli, Uman pensiero, E splendi e folgora Di fiamme cinto; Materia, inalzati; Satana ha vinto. Un bello e orribile Mostro si sferra, Corre gli oceani, Corre la terra: Corusco e fumido Come i vulcani, I monti supera, Divora i piani; Sorvola i baratri; Poi si nasconde Per antri incogniti, Per vie profonde; Ed esce; e indomito Di lido in lido Come di turbine Manda il suo grido, Come di turbine L'alito spande: Ei passa, o popoli, Satana il grande. Passa benefico Di loco in loco Su l'infrenabile Carro del foco. Salute, o Satana O ribellione O forza vindice De la ragione! Sacri a te salgano Gl'incensi e i voti! Hai vinto il Geova De i sacerdoti.
Ancor dal monte, che di foschi ondeggia frassini al vento mormoranti e lunge per l'aure odora fresco di silvestri salvie e di timi, scendon nel vespero umido, o Clitumno, a te le greggi: a te l'umbro fanciullo la riluttante pecora ne l'onda immerge, mentre vèr'lui dal seno de la madre adusta, che scalza siede al casolare e canta, una poppante volgesi e dal viso tondo sorride: pensoso il padre, di caprine pelli l'anche ravvolto come i fauni antichi, regge il dipinto plaustro e la forza dè bei giovenchi, dè bei giovenchi dal quadrato petto, erti su 'l capo le lunate corna, dolci ne gli occhi, nivei, che il mite Virgilio amava. Oscure intanto fumano le nubi su l'Apennino: grande, austera, verde da le montagne digradanti in cerchio l'Umbria guarda. Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte nume Clitumno! Sento in cuor l'antica patria e aleggiarmi su l'accesa fronte gl'itali iddii. Chi l'ombre indusse del piangente salcio sù rivi sacri? Ti rapisca il vento de l'Apennino, o molle pianta, amore d'umili tempi! Qui pugni à verni e arcane istorie frema co 'l palpitante maggio ilice nera, a cui d'allegra giovinezza il tronco l'edera veste: qui folti a torno l'emergente nume stieno, giganti vigili, i cipressi; e tu fra l'ombre, tu fatali canta carmi, o Clitumno. 0 testimone di tre imperi, dinne come il grave umbro nè duelli atroce cesse a l'astato velite e la forte Etruria crebbe: dì come sovra le congiunte ville dal superato Cimino a gran passi calò Gradivo poi, piantando i segni fieri di Roma. Ma tu placavi, indigete comune italo nume, i vincitori a i vinti, e, quando tonò il punico furore dal Trasimeno, per gli antri tuoi salì grido, e la torta lo ripercosse buccina da i monti: - O tu che pasci i buoi presso Mevania caliginosa, e tu che i proni colli ari a la sponda del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti sovra Spoleto verdi o ne la marzia Todi fai nozze, lascia il bue grasso tra le canne, lascia il torel fulvo a mezzo solco, lascia ne l'inclinata quercia il cuneo, lascia la sposa a l'ara; e corri, corri, corri! Con la scure corri e cò dardi, con la clava e l'asta! Corri! Minaccia gl'itali penati Annibal diro. - Deh come rise d'alma luce il sole per questa chiostra di bei monti, quando urlanti vide e ruinanti in fuga l'alta Spoleto i Mauri immani e i numídi cavalli con mischia oscena, e, sovra loro, nembi di ferro, flutti d'olio ardente, e i canti de la vittoria! Tutto ora tace. Nel sereno gorgo la tenue miro saliente vena: trema, e d'un lieve pullular lo specchio segna de l'acque. Ride sepolta a l'imo una foresta breve, e rameggia immobile: il diaspro par che si mischi in flessuosi amori con l'ametista. E di zaffiro i fior paiono, ed hanno de l'adamante rigido i riflessi, e splendon freddi e chiamano a i silenzi del verde fondo. A piè de i monti e de le querce a l'ombra cò fiumi, o Italia, è dè tuoi carmi il fonte. Visser le ninfe, vissero: e un divino talamo è questo. Emergean lunghe nè fluenti veli naiadi azzurre, e per la cheta sera chiamavan alto le sorelle brune da le montagne, e danze sotto l'imminente luna guidavan, liete ricantando in coro di Giano eterno e quanto amor lo vinse di Camesena. Egli dal cielo, autoctona virago ella: fu letto l'Apennin fumante: velaro i nembi il grande amplesso, e nacque l'itala gente. Tutto ora tace, o vedovo Clitumno, tutto: dè vaghi tuoi delúbri un solo t'avanza, e dentro pretestato nume tu non vi siedi. Non più perfusi del tuo fiume sacro menano i tori, vittime orgogliose, trofei romani a i templi aviti: Roma più non trionfa. Più non trionfa, poi che un galileo di rosse chiome il Campidoglio ascese, gittolle in braccio una sua croce, e disse — Portala, e servi. — Fuggir le ninfe a piangere nè fiumi occulte e dentro i cortici materni, od ululando dileguaron come nuvole a i monti, quando una strana compagnia, tra i bianchi templi spogliati e i colonnati infranti, procedé lenta, in neri sacchi avvolta, litaniando, e sovra i campi del lavoro umano sonanti e i clivi memori d'impero fece deserto, et il deserto disse regno di Dio. Strappar le turbe a i santi aratri, a i vecchi padri aspettanti, a le fiorenti mogli; ovunque il divo sol benedicea, maledicenti. Maledicenti a l'opre de la vita e de l'amore, ei deliraro atroci congiugnimenti di dolor con Dio su rupi e in grotte; discesero ebri di dissolvimento a le cittadi, e in ridde paurose al crocefisso supplicarono, empi, d'essere abietti. Salve, o serena de l'Ilisso in riva, o intera e dritta a i lidi almi del Tebro anima umana! i foschi dí passaro, risorgi e regna. E tu, pia madre di giovenchi invitti a franger glebe e rintegrar maggesi e d'annitrenti in guerra aspri polledri Italia madre, madre di biade e viti e leggi eterne ed inclite arti a raddolcir la vita, salve! a te i canti de l'antica lode io rinnovello. Plaudono i monti al carme e i boschi e l'acque de l'Umbria verde: in faccia a noi fumando ed anelando nuove industrie in corsa fischia il vapore.
Alla vittoria tra le rovine del tempio di Vespasiano in Brescia
Scuotesti, vergin divina, l'auspice ala su gli elmi chini de i pèltasti, poggiasti il ginocchio a lo scudo, aspettanti con l'aste protese? O pur volasti davanti l'aquile, davanti i flutti dè marsi militi, co 'l miro fulgor respingendo gli annitrenti cavalli de i Parti? Raccolte or l'ali, sopra la galea del vinto insisti fiera co 'l poplite, qual nome di vittorïoso capitano su 'l clipeo scrivendo? È d'un arconte, che sovra i despoti gloriò le sante leggi dè liberi? D'un consol, che il nome i confini e il terror de l'impero distese? Vorrei vederti su l'Alpi, splendida fra le tempeste, bandir ne i secoli: "O popoli, Italia qui giunse vendicando il suo nome e il diritto. " Ma Lidia intanto de i fiori ch'èduca mesti l'ottobre da le macerie romane t'elegge un pio serto, e, ponendol soave al tuo piede, "Che dunque" dice "pensasti, o vergine cara, là sotto ne la terra umida tanti anni? Sentisti i cavalli d'Alemagna su 'l greco tuo capo? " "Sentii" risponde la diva, e folgora "però ch'io sono la gloria ellenica, io sono la forza del Lazio traversante nel bronzo pè tempi. Passâr l'etadi simili a i dodici avvoltoi tristi che vide Romolo e sursi 'O Italià annunziando 'I sepolti son teco e i tuoi numì! " Lieta del fato Brescia raccolsemi, Brescia la forte, Brescia la ferrea, Brescia leonessa d'Italia beverata nel sangue nemico.
Gelido il vento pè lunghi e candidi Intercolonnii fería; sù tumuli Di garzonetti e spose Rabbrividian le rose Sotto la pioggia, che, lenta, assidua, Sottil, da un grigio cielo di maggio Battea con faticoso Metro il piano fangoso; Quando, percossa d'un lieve tremito, Ella il bel velo d'intorno a gli omeri raccolto al seno avvinse E tutta a me si strinse: Voluttuosa ne l'atto languido Tra i gotici archi, quale trà larici Gentil palma volgente Al nativo oriente. Guardò serena per entro i lugubri Luoghi di morte; levò la tenue Fronte, pallida e bella, Tra le floride anella Che a l'agil collo scendendo incaute Tutta di molle fulgor la irradiano: E piovvemi nel cuore Sguardi e accenti d'amore Lunghi, soavi, profondi: eolia Cetra non rese piú dolci gemiti Mai né sì molli spirti Di Lesbo un dí tra i mirti. Su i muti in tanto marmi la serica Vesta strisciava con legger sibilo, Spargéanmi al viso i venti Le sue chiome fluenti. Non mai le tombe sí belle apparvero A me nei primi sogni di gloria Oh amor, solenne e forte Come il suggel di morte! Oh delibato fra i sospir trepidi Su i cari labri fiore de l'anima E intraviste nè baci Interminate paci! Oh favolosi prati d'Elisio, Pieni di cetre, di ludi eroici E del purpureo raggio Di non fallace maggio, Ove in disparte bisbigliando errano (Né patto umano né destin ferreo L'un da l'altra divelle) I poeti e le belle!
Tirreno, anche il mio petto è un mar profondo E di tempeste, o grande, a te non cede: l'anima mia rugge nè flutti, e a tondo Suoi brevi lidi e il piccol cielo fiede.
Tra le sucide schiume anche dal fondo stride la rena: e qua e là si vede qualche cetaceo stupido ed immondo boccheggiar ritto dietro immonde prede.
La ragion de le due vedette algenti contempla e addita e conta ad una ad una onde e belve ed arene in van furenti:
Come su questa solitaria duna L'ire tue negre a gli autunnali venti Inutil lampa illumina la luna.