Ecco il genio umanitario che del mondo stazionario unge le carrucole. Per finir la vecchia lite tra noi, bestie incivilite sempre un po' selvatiche, coll'idea d'essere Orfeo vuoi mestare in un cibreo l'universo e reliqua. Al ronzio di quella lira ci uniremo, gira gira, tutti in un gomitolo. Varietà d'usi e di clima le son fisime di prima; è mutata l'aria. I deserti, i monti, i mari, son confini da lunari, sogni di geografi. Col vapore e coi palloni troveremo gli scorcioni anco nelle nuvole; ogni tanto, se ci pare, scapperemo a desinare sotto, qui agli antipodi; e né gemini emisferi ci uniremo bianchi e neri: bene! Che bei posteri! Nascerà di cani e gatti una razza di mulatti proprio in corpo e in anima. La scacchiera d'Arlecchino sarà il nostro figurino, simbolo dell'indole. (Già per questo il Gran Sultano fé' la giubba al Mussulmano a coda di rondine!) Bel gabbione di fratelli! Di tirarci pè capelli smetteremo all'ultimo. Sarà inutile il cannone; rnorirem d'indigestione, anzi di nullaggine. La fiaccona generale per la storia universale farà molto comodo. Io non so se il regno umano deve aver Papa e Sovrano: ma se ci hanno a essere, Il Monarca sarà probo e discreto: un re del globo saprà star né limiti. Ed il capo della fede? Consoliamoci, si crede che sarà cattolico.
Finirà, se Dio lo vuole, questa guerra di parole, guerra da pettegoli. Finirà: sarà parlata una lingua mescolata, tutta frasi aeree; e già già da certi tali nei poemi e nei giornali si comincia a scriverè. Il puntiglio discortese di tener dal suo paese, sparirà tra gli uomini. Lo chez-nous'd'un vagabondo vorrà dire: in questo mondo, non a casa al diavolo. Tu, gelosa ipocondria, che m'inchiodi a casa mia, escimi dal fegato; e tu pur chetati, o Musa, che mi secchi colla scusa dell'amor di patria. Son figliuol dell'universo, e mi sembra tempo perso scriver per l'Italia. Cari miei concittadini, non prendiamo per confini l'Alpi e la Sicilia. S'ha da star qui rattrappiti sul terren che ci ha nutriti? O che siamo cavoli? Qua e là nascere adesso, figuratevi, è lo stesso: io mi credo Tartaro. Perché far razza tra noi? Non è scrupolo da voi: abbracciamo i barbari! Un pensier cosmopolita ci moltiplichi la vita, e ci slarghi il cranio. Il cuor nostro accartocciato, nel sentirsi dilatato, cesserà di battere. Così sia: certe battute fanno male alla salute; ci è da dare in tisico. Su venite, io sto per uno; son di tutti e di nessuno; non mi vò confondere. Nella gran cittadinanza, picchia e mena, ho la speranza di veder le scimmie Sì sì, tutto un zibaldone: alla barba di Platone ecco la repubblica!
Io non son della solita vacchetta, né sono uno stival da contadino; e se pajo tagliato coll'accetta, chi lavorò non era un ciabattino: mi fece a doppie suola e alla scudiera, e per servir da bosco e da riviera.
Dalla coscia giù giù sino al tallone sempre all'umido sto senza marcire; son buono a caccia e per menar di sprone, e molti ciuchi ve lo posson dire: tacconato di solida impuntura, ho l'orlo in cima, e in mezzo la costura.
Ma l'infilarmi poi non è sì facile, né portar mi potrebbe ogni arfasatto; anzi affatico e stroppio un piede gracile, e alla gamba dei più son disadatto; portarmi molto non poté nessuno, m'hanno sempre portato a un po' per uno.
Io qui non vi farò la litania di quei che fur di me desiderosi; ma così qua e là per bizzarria ne citerò soltanto i più famosi, narrando come fui messo a soqquadro, e poi come passai di ladro in ladro.
Parrà cosa incredibile: una volta, non so come, da me presi il galoppo, e corsi tutto il mondo a briglia sciolta; ma camminar volendo un poco troppo, l'equilibrio perduto, il proprio peso in terra mi portò lungo e disteso.
Allora vi successe un parapiglia; e gente d'ogni risma e d'ogni conio pioveano di lontan le mille miglia, per consiglio d'un Prete o del Demonio: chi mi prese al gambale e chi alla fiocca, gridandosi tra lor: bazza a chi tocca. Volle il Prete, a dispetto della fede, calzarmi coll'ajuto e da sé solo; poi sentì che non fui fatto al suo piede, e allora qua e là mi dette a nolo: ora alle mani del primo occupante mi lascia, e per lo più fa da tirante.
Tacca col Prete a picca e le calcagna volea piantarci un bravazzon tedesco, ma più volte scappare in Alemagna lo vidi sul caval di San Francesco: in seguito tornò; ci s'è spedato, ma tutto fin a qui non m'ha infilato.
Per un secolo e più rimasto vuoto, cinsi la gamba a un semplice mercante; mi riunse costui, mi tenne in moto, e seco mi portò fino in Levante, - ruvido sì, ma non mancava un ette, e di chiodi ferrato e di bullette.
Il mercante arricchì, credè decoro darmi un po' più di garbo e d'apparenza: ebbi lo sprone, ebbi la nappa d'oro, ma un tanto scapitai di consistenza; e gira gira, veggo in conclusione che le prime bullette eran più buone.
In me non si vedea grinza né spacco, quando giù di ponente un birichino ea una galera mi saltò sul tacco, e si provò a ficcare anco il zampino; ma largo largo non vi stette mai, anzi un giorno a Palermo lo stroppiai.
Fra gli altri dilettanti oltramontani, per infilarmi un certo re di picche ci si messe cò piedi e colle mani; ma poi rimase lì come berlicche, quando un cappon, geloso del pollajo, gli minacciò di fare il campanajo.
Da bottega a compir la mia rovina saltò fuori in quel tempo, o giù di lì, un certo professor di medicina, che per camparmi sulla buccia, ordì una tela di cabale e d'inganni che fu tessuta poi per trecent'anni.
Mi lisciò, mi coprì di bagattelle, e a forza d'ammollienti e d'impostura tanto raspò, che mi strappò la pelle; e chi dopo di lui mi prese in cura, mi concia tuttavia colla ricetta di quella scuola iniqua e maledetta.
Ballottato così di mano in mano, da una fitta d'arpìe preso di mira, ebbi a soffrire un Gallo e un Catalano che si messero a fare a tira tira: alfin fu Don Chisciotte il fortunato, ma gli rimasi rotto e sbertucciato.
Chi m'ha veduto in piede a lui, mi dice che lo Spagnolo mi portò malissimo: m'insafardò di morchia e di vernice, chiarissimo fui detto ed illustrissimo; ma di sottecche adoperò la lima, e mi lasciò più sbrendoli di prima.
A mezza gamba, di color vermiglio, per segno di grandezza e per memoria, m'era rimasto solamente un Giglio: ma un Papa mulo, il Diavol l'abbia in gloria, ai Barbari lo diè, con questo patto di farne una corona a un suo mulatto.
Da quel momento, ognuno in santa pace la lesina menando e la tanaglia, cascai dalla padella nella brace: vicerè, birri, e simile canaglia mi fecero angherie di nuova idea, et diviserunt vestimenta, mea.
Così passato d'una in altra zampa d'animalacci zotici e sversati, venne a mancare in me la vecchia stampa di quei piedi diritti e ben piantati, cò quali, senza andar mai di traverso, il gran giro compiei dell'universo.
Oh povero stivale! Ora confesso che m'ha gabbato questa matta idea: quand'era tempo d'andar da me stesso, colle gambe degli altri andar volea; ed oltre a ciò, la smania inopportuna di mutar piede per mutar fortuna.
Lo sento e lo confesso; e nondimeno mi trovo così tutto in isconquasso, che par che sotto mi manchi il terreno se mi provo ogni tanto a fare un passo; ché a forza di lasciarmi malmenare, ho persa l'abitudine d'andare.
Ma il più gran male me l'han fatto i Preti, razza maligna e senza discrezione; e l'ho con certi grulli di poeti, che in oggi si son dati al bacchettone: non c'è Cristo che tenga, i Decretali vietano ai Preti di portar stivali.
E intanto eccomi qui roso e negletto, sbrancicato da tutti, e tutto mota; e qualche gamba da gran tempo aspetto che mi levi di grinze e che mi scuota; non tedesca, s'intende, né francese, ma una gamba vorrei del mio paese.
Una già n'assaggiai d'un certo Sere, che se non mi faceva il vagabondo, in me potea vantar di possedere il più forte stival del Mappamondo: ah! Una nevata in quelle corse strambe a mezza strada gli gelò le gambe.
Rifatto allora sulle vecchie forme e riportato allo scorticatojo, se fui di peso e di valore enorme, mi resta a mala pena il primo cuojo; e per tapparmi i buchi nuovi e vecchi ci vuol altro che spago e piantastecchi.
La spesa è forte, e lunga è la fatica: bisogna ricucir brano per brano; ripulir le pillacchere; all'antica piantar chiodi e bullette, e poi pian piano ringambalar la polpa ed il tomajo: ma per pietà badate al calzolaio!
E poi vedete un po': qua son turchino, là rosso e bianco, e quassù giallo e nero; insomma a toppe come un arlecchino; se volete rimettermi davvero, fatemi, con prudenza e con amore, tutto d'un pezzo e tutto d'un colore.
Scavizzolate all'ultimo se v'è un uomo purché sia, fuorché poltrone; e se quando a costui mi trovo in piè, si figurasse qualche buon padrone di far con meco il solito mestiere, lo piglieremo a calci nel sedere. (Giuseppe Giusti)
La chiosa di Pierluigi
Seguendo il tuo consiglio l'hanno fatto: han provato per centosettant'anni a cercar di scoprire il piede adatto; con alti e bassi han fatto altri danni; ai Preti ora noi dobbiam sommare chi d'Oltremare ci viene a provare!
E or caro Giuseppe, mio Maestro, hanno la gamba pensato di trovare: hanno creduto che col piede destro di nuovo lui potesse camminare! Il guaio è che nessuno ha mai badato per quale piede l'hanno fabbricato! (Pierluigi Camilli)
Viva Adelaide che il cuor m'infiamma, e in omnia secula, viva la mamma! Donna mirabile, donna famosa! È un capo d'opera è una gran cosa. Una domenica L'incontro in piazza, che aveva a latere la sua ragazza; mi ferma e, affabile come conviene, comincia al solito: - Che fa? Sta bene? - Ed alla figlia che stava zitta, gridò: - Su, animo! Che fai lì ritta? Su grulla, avvezzati, fa il tuo dovere... - Che mamma amabile! Non è un piacere? E poi, tenendomi le mani ai panni, soggiunse: - Oh, passano pur presto gli anni! L'ho vista nascere: eh, malannaggio! S'invecchia e termina l'erba di maggio! Eh, bimba andiamocene, stamane ho fretta: venga un po' a veglia, venga, s'aspetta! Siam gente povera, ma di buon cuore: ci fa una grazia, anzi un onore. Via bimba, pregalo! Stai lì impalata! Ma, santa Vergine! Sei pur sgarbata! - «È sempre giovane» dissi « aspettate, lasciate correre, non la sgridate: l'età, la pratica è molto: e poi, farà miracoli sotto di voi! » Ai panegirici non sempre avvezza, fece una smorfia di tenerezza la vecchia, e a battere sul primo invito tornò, dicendomi: - Dunque, ha capito; sa dove s'abita: verrà? - «Verrò. » E chi rispondere Potea di no? V'andai. Col giubilo, con quel sembiante che per le visite d'un zoccolante ho visto prendere dalle massaie, quando alla questua gira per l'aie, quelle, vedendomi, in un baleno precipitarono a pian terreno; poi risalirono con meco; ed ambe -Badi- gridavano -badi alle gambe. È poco pratico la scala è scura... - «Ma quanti incomodi! Quanta premura! » Salgo, si chiacchiera sul più, sul meno; mi dàn del discolo dal capo ameno. Tutta sollecita la mamma intanto scotea la seggiola, puliva un santo; da un certo armadio fra pochi stracci scioglieva in furia due canovacci; d'acqua in un angolo la brocca empiva: che mamma provvida! Che pulizia! Finite all'ultimo tante faccende, disse: - E per tavola cosa si prende? Credi Delaide, sono sgomenta! - e a me voltandosi diceva: - Senta, con tanti ninnoli ci va un tesoro: le voglie crescono, manca il lavoro. Oh, ripensandoci m'affogherei; almeno, càttera, felice lei... - Capii l'antifona, ed un testone le offersi a titolo di compassione. La vecchia ingenua per la sorpresa m'urtò col gomito, si finse offesa; ma per imprestito poi l'accettò, e per andarsene s'incamminò e nell'orecchio mi disse: -Ohè! Ritorno subito; badiamo, vhè! - Io per non ridere alzando il ciglio, risposi: «Diamine! Mi meraviglio! » Esce da camera, chiude la porta; sta fuori un secolo: che mamma accorta! Poi tosse e strascica prima d'entrare.... Il ciel moltiplichi mamme sì rare!