Il sole fa scivolare la mano attraverso il fogliame del giorno e lancia sull'ammattonato la moneta del nostro pezzo Assolo d'ombre e di voce affinché vi troviamo la forza di scambiare il presente per il futuro come un bambino con i suoi occhi e somigliamo abbastanza agli uccelli per credere all'albero fraterno che ci spartiamo.
I treni di pena tirano fuori dal letto paesi grondanti e stravolti fatti di piccoli mattini chiusi di lunghi vagheggiamenti d’erbe e isole dove in procinto di raggiungere la zona delle turbolenze le lavoratrici vanno a gettare il figlio del loro sonno Il cielo non esiste è la cifra degli occhi caduti nella cenere come se l’anima non avesse più i mezzi per rilanciare sotto la palpebra l’impossibile navetta del bene
È una fine giornata come tutti ne abbiamo conosciute: le cose sono al loro posto, il mondo potrebbe rovesciarsi, il quadro, il soggetto, niente cambierebbe aspetto – a meno che, come qui, il figlio di Jacopo, il pittore, non scivoli tra la scena e il pennello e non se ne resti là, con gli occhi grandi aperti sull'angolo più scuro, questa sorda follia che non può accettare né rifiutare: l'indifferenza dei vivi per i vivi – e se interroga il vuoto, è come se cercasse di che riempire la notte e gli occhi di Lazzaro al tempo stesso.
Sono in tre attorno alla tavola, l'uno tiene distrattamente una viola sulle ginocchia ma non suona, l'altro con il piatto vuoto sulla tovaglia logora, il terzo è una donna dal corpo bianchissimo, i seni offerti alla luce di questa fine giornata in cui ciascuno aspetta qualche cosa in più che si nega, ostinatamente si nega. Sono in tre attorno alla tavola e tu sei il quarto nell'angolo perso della tela, a raccogliere le briciole sotto la firma illeggibile.
I bambini che s'insinuano tra le nostre parole come un punto e virgola, sanno tutto e si ricordano della nostra fatica di dire la vita che passa e di come l'amore è difficile. Insinuano cantando un dito leggero nella scollatura del mondo che ci copre poi si fermano con la guancia contro l'orecchio del gatto con un viso grave e chiuso così in fretta da farci perdere l'equilibrio, gettarci fuori dal tempo, d'un tratto muti come accanto a un pozzo colmo di parole mentre si arrotonda, vera dei nostri giorni, delle nostre vane parole, la pupilla del gatto.
Certe sere il lupo che credevamo morto privato d'infanzia ci mostra alla finestra la punta del muso ma è un altro lupo ed è un'altra infanzia che ci serve per ammansirlo Passiamo la notte nella neve delle carezze a cercare sui nostri corpi la scia dei suoi passi.