Che entri mia madre portando in seno mio padre che entri per quell'attimo che basta. Le somiglio lo so in scioltezza di cuore in pienezza d'affanno. Che entri per governarmi l'assenza. E m'investa la brezza l'ossatura del moto. Che entri per quell'attimo che basta scollata dai tetti dallo ione da Dio. E mi elegga veggente oculato interamente logico quaggiù nel polmone.
Preferisco di gran lunga gli spazi ristretti e i tracciati sbriciolati alle caviglie leggiadre o alle insigne serpi. Il mio letto è di felci E mi addormento con decadenze di luci. E si appoggia il forestiero e la sua fibra migliore e il ragno che tesse il suo ingegno. Chi è assetato di grandezza infiammi l'universo.
Accadeva dopo cena appena dopo le ventuno al rintocco dell'ultimo sprazzo. Ci si chiamava per nomi stentorei Fidia, Asclepiade. Il tatto arroventato sui fianchi le labbra perfette all'umido corallo. Seguivamo vestiboli che aprivano a bifore più aggraziate. Soffocati in un nembo i sospiri sceglievamo Kavafis da leggere al buio. La notte era un lunghissimo mare.
Mi sono affacciato alla finestra per meglio scorgere il dolore. C'erano tutti: il padre, la madre, il figlio e una vecchina labile, stanca che mondava una mela fradicia.