Non chiedere non ordinare il pasto perché i morti non si fanno pregare prendono un assaggio dalla ciotola del mai e lo portano nel serraglio del cielo.
Raramente si trova lì dentro qualcosa di utile ma di tanto in tanto una strada di luce, un labirinto che, cercare di evitarlo è quasi insensato.
A gruppi di urla, si presentano un essere dopo l'altro noi veniamo a capo dei loro nomi non del loro futuro non aiutano i canti.
Gli abiti da tempo strappati ci rimettiamo al lutto del silenzio e siamo quello che siamo:
A quest'ora non vola solo il papavero a quest'ora scorre polvere di stelle fuori da tutte le caverne. In questi giorni si apre una parola dopo l'altra e sboccia e muore ed è a se stessa tomba. Se venisse uno a depurarmi il cielo infangato. Noi condividiamo, gli griderei, pane di lupo e gemme d'anemoni, sbrìgati, prima che il sogno arido ci sradichi. Un vento nero si alza e spazza l'ultima luce dalla mia fronte, un rondone non ritrova la sua nidiata. Una risata sospinge il cielo ai margini del mondo, prende fuoco, ah, sfonda rumorosamente il respiro d'argento. Distrutto il tuo amuleto di onde. Il tuo canto di piume bandito in un luogo oscuro.
Dormi sotto i lecci per toglierti il giorno ammorbidito dalle labbra, prenditi il firmamento dalla mia pelle. Coglimi schegge di parole dalla bocca, cerca sotto le ramificazioni delle palpebre le scorte del lupo. Non chiedere. Svelto, mangia il pane del deserto che ti ha infornato il mio lupo trovatello e bevi tutta la mandragola. Già si addensa una maledizione intorno al tempo, un incubo frusta il mio cuore con vento inconsolabile, nella costellazione del Cane se ne perde la traccia, eppure: ancora rimane una parola sorrisa erba di zigani per la stirpe martoriata. Ancora metto un piede avanti all'altro e cresco nella confusione. Ancora mi rimane il fiore-di-nessuno, passi di rugiada, un'ora oscura. Rotola, nutrita di veleno, delusa dalle mie lacrime, dentro di sé fino al principio.
La mia bocca si scaldava alla luce, plasmava obiezioni. Io cantavo il mio cruccio e l'amore, volavo, pesantemente adorna di perle, rivestita di felicità, incontro agli astri, che dei loro gioielli abbisognavano per le notti a venire, per guarire.
Giacinti, custodi del fiore della mia ferita. Sotto l'asse dei germogli ho trovato un disco di morte in stato di grazia. Grida di uccelli allineati, un filo di perle in diagonale sul monte di parole. Ora cadono piume lunari: il canto non consumato, per te. Il tempo ha per ognuno un cuore che, traendo i suoi sogni dalla polvere delle stelle, si strapazza di danze fino a diventare un folle. Ci diamo un cenno raffiche di luce da una bocca all'altra, un tocco di vento di papavero sulle nostre palpebre. Alla fine, davanti al cancello nell'ora arsa dal fuoco, la parola inespugnata.
Vitamia, dimmi, che un segno pasquale ci toglie dalla bilancia del dolore e che, dando la mano al vento del sud, la parola si rivela. Vitamia, prendi la luce che fugge e salva la parola in fuga dalla fuga. Baciami via il verso dalle labbra, intessilo delicatamente con la stella naufragata. Azzurro-febbre risplendono le spalle della collina, la notte minaccia la parola che invecchia portata dal vento. Vitamia, ascolta, accanto al pozzo sotto il frassino cantano i serpenti un Dio li adorna di una luce a macchie, e io, vitamia, gli succhierò fuori il veleno dalla bocca. Guarda, la sera mette le ciglia alla viola mammola e coglie piante-di-tenebra dai nostri capelli. Le ombre si affrettano a raggiungere un luogo senza patria, gli spiriti, ingannati dalle nostre palpebre, diventano ciechi.
Poco ha a che fare con gli esseri umani l'aridità della luna. Eppure è lì che fiorisce la verbena del cuore dalle rovine della luce, il giallo pozzo a carrucola dal fuoco lontano. Per giorni e giorni ho corso nella neve, non mi sono riscaldata e nessuno ha mantenuto la parola quando la mia si è infranta sul passo e sul rossore iracondo del cielo. Quando il silenzio ha mutato il mio piede in pietra. Neve, dunque, neve e carne in cui nessun canto soffia la vita, che porterebbe me all'aridità della luna oppure – anche questo -, che potrebbe essere redenta dai coltelli, come ultima consolazione. Ero leggera come un uccello con le penne d'oro, un segno nel vento serale e avvolta nello stupore del bambino. La mia bocca è passata oltre questo tempo felice, non vuole imparare a vedere, quando il giorno la interroga e cerca di afferrare un sorriso. Anche gli angeli, ora, sono diventati ciechi.
Una sera, consacrata con troppa premura, i vitigni fuggono in una felicità lontana dal linguaggio. Davanti alla cascina le ore di pietra, ammucchiate e bianche per via della mano del sole, che le ha coperte. Ora è tempo, fratello, di custodire la stella naufragata, perché nessuno la derida con la bocca tozza. Un grido vuole prendere fiato, il grido sacrificale della selvaggina toglie il cielo alla valle. Buttami la luna, il pane dell'instancabile. Fammi rotolare la stella davanti al sogno risvegliato col canto.