Poesie di Pier Paolo Pasolini

Poeta, scrittore, regista e attore, nato domenica 5 marzo 1922 a Bologna (Italia), morto domenica 2 novembre 1975 a Roma (Italia)
Questo autore lo trovi anche in Frasi & Aforismi e in Film come regista.

Scritta da: Silvana Stremiz

MI alzo con le palpebre infuocate

MI alzo con le palpebre infuocate.
La fanciullezza smorta nella barba
cresciuta nel sonno, nella carne smagrita,
si fissa con la luce fusa nei miei occhi riarsi.
Finisco così nel buio incendio
di una giovinezza frastornata dall'eternità;
così mi brucio, è inutile
- pensando - essere altrimenti,
imporre limiti al disordine: mi trascina
sempre più frusto, con un viso secco
nella sua infanzia, verso un quieto e folle
ordine, il peso del mio giorno perso
in mute ore di gaiezza, in muti
istanti di terrore...
Pier Paolo Pasolini
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    Senza di te tornavo, come ebbro...

    Senza di te tornavo, come ebbro,
    non più capace d'esser solo, a sera
    quando le stanche nuvole dileguano
    nel buio incerto.
    Mille volte son stato così solo
    dacché son vivo, e mille uguali sere
    m'hanno oscurato agli occhi l'erba, i monti
    le campagne, le nuvole.
    Solo nel giorno, e poi dentro il silenzio
    della fatale sera. Ed ora, ebbro,
    torno senza di te, e al mio fianco
    c'è solo l'ombra.

    E mi sarai lontano mille volte,
    e poi, per sempre. Io non so frenare
    quest'angoscia che monta dentro al seno;
    essere solo.
    Pier Paolo Pasolini
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      Il desiderio di ricchezza del sottoproletariato romano

      Li osservo, questi uomini, educati
      ad altra vita che la mia: frutti
      d'una storia tanto diversa, e ritrovati,
      quasi fratelli, qui, nell'ultima forma
      storica di Roma. Li osservo: in tutti
      c'è come l'aria d'un buttero che dorma
      armato di coltello: nei loro succhi
      vitali, è disteso un tenebrore intenso,
      la papale itterizia del Belli,
      non porpora, ma spento peperino,
      bilioso cotto. La biancheria, sotto,
      fine e sporca; nell'occhio, l'ironia
      che trapela il suo umido, rosso,
      indecente bruciore. La sera li espone
      quasi in romitori, in riserve
      fatte di vicoli, muretti, androni
      e finestrelle perse nel silenzio.
      È certo la prima delle loro passioni
      il desiderio di ricchezza: sordido
      come le loro membra non lavate,
      nascosto, e insieme scoperto,
      privo di ogni pudore: come senza pudore
      è il rapace che svolazza pregustando
      chiotto il boccone, o il lupo, o il ragno;
      essi bramano i soldi come zingari,
      mercenari, puttane: si lagnano
      se non ce n'hanno, usano lusinghe
      abbiette per ottenerli, si gloriano
      plautinamente se ne hanno le saccocce
      piene.
      Se lavorano - lavoro di mafiosi macellari,
      ferini lucidatori, invertiti commessi,
      tranvieri incarogniti, tisici ambulanti,
      manovali buoni come cani - avviene
      che abbiano ugualmente un'aria di ladri:
      troppa avita furberia in quelle vene...

      Sono usciti dal ventre delle loro madri
      a ritrovarsi in marciapiedi o in prati
      preistorici, e iscritti in un'anagrafe
      che da ogni storia li vuole ignorati...
      Il loro desiderio di ricchezza
      è, così, banditesco, aristocratico.
      Simile al mio. Ognuno pensa a sé,
      a vincere l'angosciosa scommessa,
      a dirsi: "È fatta, " con un ghigno di re...
      La nostra speranza è ugualmente ossessa:
      estetizzante, in me, in essi anarchica.
      Al raffinato e al sottoproletariato spetta
      la stessa ordinazione gerarchica
      dei sentimenti: entrambi fuori dalla storia,
      in un mondo che non ha altri varchi
      che verso il sesso e il cuore,
      altra profondità che nei sensi.
      In cui la gioia è gioia, il dolore dolore.
      Pier Paolo Pasolini
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        Verso le Terme di Caracalla

        Vanno verso le Terme di Caracalla
        giovani amici, a cavalcioni
        di Rumi o Ducati, con maschile
        pudore e maschile impudicizia,
        nelle pieghe calde dei calzoni
        nascondendo indifferenti, o scoprendo,
        il segreto delle loro erezioni...
        Con la testa ondulata, il giovanile
        colore dei maglioni, essi fendono
        la notte, in un carosello
        sconclusionato, invadono la notte,
        splendidi padroni della notte...

        Va verso le Terme di Caracalla,
        eretto il busto, come sulle natie
        chine appenniniche, fra tratturi
        che sanno di bestia secolare e pie
        ceneri di berberi paesi - già impuro
        sotto il gaglioffo basco impolverato,
        e le mani in saccoccia - il pastore
        migrato
        undicenne, e ora qui, malandrino e
        giulivo
        nel romano riso, caldo ancora
        di salvia rossa, di fico e d'ulivo...

        Va verso le Terme di Caracalla,
        il vecchio padre di famiglia, disoccupato,
        che il feroce Frascati ha ridotto
        a una bestia cretina, a un beato,
        con nello chassì i ferrivecchi
        del suo corpo scassato, a pezzi,

        rantolanti: i panni, un sacco,
        che contiene una schiena un po' gobba,
        due cosce certo piene di croste,
        i calzonacci che gli svolazzano sotto
        le saccocce della giacca pese
        di lordi cartocci. La faccia
        ride: sotto le ganasce, gli ossi
        masticano parole, scrocchiando:
        parla da solo, poi si ferma,
        e arrotola il vecchio mozzicone,
        carcassa dove tutta la giovinezza,
        resta, in fiore, come un focaraccio
        dentro una còfana o un catino:
        non muore chi non è mai nato.
        Pier Paolo Pasolini
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Il canto popolare

          Improvviso il mille novecento
          cinquanta due passa sull'Italia:
          solo il popolo ne ha un sentimento
          vero: mai tolto al tempo, non l'abbaglia
          la modernità, benché sempre il più
          moderno sia esso, il popolo, spanto
          in borghi, in rioni, con gioventù
          sempre nuove - nuove al vecchio canto -
          a ripetere ingenuo quello che fu.

          Scotta il primo sole dolce dell'anno
          sopra i portici delle cittadine
          di provincia, sui paesi che sanno
          ancora di nevi, sulle appenniniche
          greggi: nelle vetrine dei capoluoghi
          i nuovi colori delle tele, i nuovi
          vestiti come in limpidi roghi
          dicono quanto oggi si rinnovi
          il mondo, che diverse gioie sfoghi...

          Ah, noi che viviamo in una sola
          generazione ogni generazione
          vissuta qui, in queste terre ora
          umiliate, non abbiamo nozione
          vera di chi è partecipe alla storia
          solo per orale, magica esperienza;
          e vive puro, non oltre la memoria
          della generazione in cui presenza
          della vita è la sua vita perentoria.

          Nella vita che è vita perché assunta
          nella nostra ragione e costruita
          per il nostro passaggio - e ora giunta
          a essere altra, oltre il nostro accanito
          difenderla - aspetta - cantando supino,
          accampato nei nostri quartieri
          a lui sconosciuti, e pronto fino
          dalle più fresche e inanimate ère -
          il popolo: muta in lui l'uomo il destino.

          E se ci rivolgiamo a quel passato
          ch'è nostro privilegio, altre fiumane
          di popolo ecco cantare: recuperato
          è il nostro moto fin dalle cristiane
          origini, ma resta indietro, immobile,
          quel canto. Si ripete uguale.
          Nelle sere non più torce ma globi
          di luce, e la periferia non pare
          altra, non altri i ragazzi nuovi...

          Tra gli orti cupi, al pigro solicello
          Adalbertos komis kurtis!, i ragazzini
          d'Ivrea gridano, e pei valloncelli
          di Toscana, con strilli di rondinini:
          Hor atorno fratt Helya! La santa
          violenza sui rozzi cuori il clero
          calca, rozzo, e li asserva a un'infanzia
          feroce nel feudo provinciale l'Impero
          da Iddio imposto: e il popolo canta.

          Un grande concerto di scalpelli
          sul Campidoglio, sul nuovo Appennino,
          sui Comuni sbiancati dalle Alpi,
          suona, giganteggiando il travertino
          nel nuovo spazio in cui s'affranca
          l'Uomo: e il manovale Dov'andastà
          jersera... ripete con l'anima spanta
          nel suo gotico mondo. Il mondo schiavitù
          resta nel popolo. E il popolo canta.

          Apprende il borghese nascente lo Ça ira,
          e trepidi nel vento napoleonico,
          all'Inno dell'Albero della Libertà,
          tremano i nuovi colori delle nazioni.
          Ma, cane affamato, difende il bracciante
          i suoi padroni, ne canta la ferocia,
          Guagliune 'e mala vita! In branchi
          feroci. La libertà non ha voce
          per il popolo cane. E il popolo canta.

          Ragazzo del popolo che canti,
          qui a Rebibbia sulla misera riva
          dell'Aniene la nuova canzonetta, vanti
          è vero, cantando, l'antica, la festiva
          leggerezza dei semplici. Ma quale
          dura certezza tu sollevi insieme
          d'imminente riscossa, in mezzo a ignari
          tuguri e grattacieli, allegro seme
          in cuore al triste mondo popolare.

          Nella tua incoscienza è la coscienza
          che in te la storia vuole, questa storia
          il cui Uomo non ha più che la violenza
          delle memorie, non la libera memoria...
          E ormai, forse, altra scelta non ha
          che dare alla sua ansia di giustizia
          la forza della tua felicità,
          e alla luce di un tempo che inizia
          la luce di chi è ciò che non sa.
          Pier Paolo Pasolini
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            Hymnus ad nocturnum

            Ho la calma di un morto:
            guardo il letto che attende
            le mie membra e lo specchio
            che mi riflette assorto.

            Non so vincere il gelo
            dell'angoscia, piangendo,
            come un tempo, nel cuore
            della terra e del cielo.

            Non so fingermi calme
            o indifferenze o altre
            giovanili prodezze,
            serti di mirto o palme.

            O immoto Dio che odio
            fa che emani ancora
            vita dalla mia vita
            non m'importa più il modo.
            Pier Paolo Pasolini
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              Dansa di Narcìs

              Jo i soj neri di amòur
              né frut né rosignòul
              dut intèir coma un flòur
              i brami sensa sen.

              Soj levat ienfra li violis
              intant ch'a sclariva,
              ciantànt un ciant dismintiàt
              ta la not vualiva.
              Mi soj dit: "Narcìs!"
              e un spirt cu'l me vis
              al scuriva la erba
              cu'l clar dai so ris.
              Pier Paolo Pasolini
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                L'alba meridionale

                Torno, ritrovo il fenomeno della fuga
                del capitale, l'epifenomeno (infimo)
                dell'avanguardia. La polizia tributaria
                (quasi accertamento filosofico
                sugli incartamenti di un poeta)
                fruga in quel fatto privato che sono i soldi,
                contaminati da carità, dolenti
                di inspiegabili consunzioni, e pieni
                di senso di colpa, come il corpo da ragazzi:
                però con mia gongolante leggerezza perché qua,
                non c'è da accertare nulla, se non la mia ingenuità.
                Torno, e trovo milioni di uomini occupati
                soltanto a vivere come barbari discesi
                da poco su una terra felice, estranei
                ad essa, e suoi possessori. Così nella vigilia
                della Preistoria che a tutto ciò darà senso,
                riprendo a Roma le mie abitudini
                di bestia ferita, che guarda negli occhi,
                godendo del morire, i suoi feritori….
                Pier Paolo Pasolini
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Ballata delle madri

                  Mi domando che madri avete avuto.
                  Se ora vi vedessero al lavoro
                  in un mondo a loro sconosciuto,
                  presi in un giro mai compiuto
                  d'esperienze così diverse dalle loro,
                  che sguardo avrebbero negli occhi?
                  Se fossero lì, mentre voi scrivete
                  il vostro pezzo, conformisti e barocchi,
                  o lo passate a redattori rotti
                  a ogni compromesso, capirebbero chi siete?

                  Madri vili, con nel viso il timore
                  antico, quello che come un male
                  deforma i lineamenti in un biancore
                  che li annebbia, li allontana dal cuore,
                  li chiude nel vecchio rifiuto morale.
                  Madri vili, poverine, preoccupate
                  che i figli conoscano la viltà
                  per chiedere un posto, per essere pratici,
                  per non offendere anime privilegiate,
                  per difendersi da ogni pietà.

                  Madri mediocri, che hanno imparato
                  con umiltà di bambine, di noi,
                  un unico, nudo significato,
                  con anime in cui il mondo è dannato
                  a non dare né dolore né gioia.
                  Madri mediocri, che non hanno avuto
                  per voi mai una parola d'amore,
                  se non d'un amore sordidamente muto
                  di bestia, e in esso v'hanno cresciuto,
                  impotenti ai reali richiami del cuore.

                  Madri servili, abituate da secoli
                  a chinare senza amore la testa,
                  a trasmettere al loro feto
                  l'antico, vergognoso segreto
                  d'accontentarsi dei resti della festa.
                  Madri servili, che vi hanno insegnato
                  come il servo può essere felice
                  odiando chi è, come lui, legato,
                  come può essere, tradendo, beato,
                  e sicuro, facendo ciò che non dice.

                  Madri feroci, intente a difendere
                  quel poco che, borghesi, possiedono,
                  la normalità e lo stipendio,
                  quasi con rabbia di chi si vendichi
                  o sia stretto da un assurdo assedio.
                  Madri feroci, che vi hanno detto:
                  Sopravvivete! Pensate a voi!
                  Non provate mai pietà o rispetto
                  per nessuno, covate nel petto
                  la vostra integrità di avvoltoi!

                  Ecco, vili, mediocri, servi,
                  feroci, le vostre povere madri!
                  Che non hanno vergogna a sapervi
                  – nel vostro odio – addirittura superbi,
                  se non è questa che una valle di lacrime.
                  È così che vi appartiene questo mondo:
                  fatti fratelli nelle opposte passioni,
                  o le patrie nemiche, dal rifiuto profondo
                  a essere diversi: a rispondere
                  del selvaggio dolore di esser uomini.
                  Pier Paolo Pasolini
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                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    Poesie mondane

                    Ci vediamo in proiezione, ed ecco
                    la città, in una sua povera ora nuda,
                    terrificante come ogni nudità.
                    Terra incendiata il cui incendio
                    spento stasera o da millenni,
                    è una cerchia infinita di ruderi rosa,
                    carboni e ossa biancheggianti, impalcature
                    dilavate dall'acqua e poi bruciate
                    da nuovo sole. La radiosa Appia
                    che formicola di migliaia di insetti
                    - gli uomini d'oggi - i neorealistici
                    ossessi delle Cronache in volgare.
                    Poi compare Testaccio, in quella luce
                    di miele proiettata sulla terra
                    dall'oltretomba. Forse è scoppiata,
                    la Bomba, fuori dalla mia coscienza.
                    Anzi, è così certamente. E la fine
                    del Mondo è già accaduta: una cosa
                    muta, calata nel controluce del crepuscolo.
                    Ombra, chi opera in questa èra.
                    Ah, sacro Novecento, regione dell'anima
                    in cui l'Apocalisse è un vecchio evento!
                    Il Pontormo con un operatore
                    meticoloso, ha disposto cantoni
                    di case giallastre, a tagliare
                    questa luce friabile e molle,
                    che dal cielo giallo si fa marrone
                    impolverato d'oro sul mondo cittadino...
                    e come piante senza radice, case e uomini,
                    creano solo muti monumenti di luce
                    e d'ombra, in movimento: perché
                    la loro morte è nel loro moto.
                    Vanno, come senza alcuna colonna sonora,
                    automobili e camion, sotto gli archi,
                    sull 'asfalto, contro il gasometro,
                    nell'ora, d'oro, di Hiroshima,
                    dopo vent'anni, sempre più dentro
                    in quella loro morte gesticolante: e io
                    ritardatario sulla morte, in anticipo
                    sulla vita vera, bevo l'incubo
                    della luce come un vino smagliante.
                    Nazione senza speranze! L'Apocalisse
                    esploso fuori dalle coscienze
                    nella malinconia dell'Italia dei Manieristi,
                    ha ucciso tutti: guardateli - ombre
                    grondanti d'oro nell'oro dell'agonia.
                    Pier Paolo Pasolini
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