Ancora i valzer del cielo non avevano sposato il gelsomino e la neve, né i venti riflettuto la possibile musica dei tuoi capelli, né decretato il re che la violetta fosse sepolta in un libro.
No.
Era l'età nella quale viaggiava la rondine senza le nostre iniziali nel becco. Quando convolvoli e campanule morivano senza balconi da scalare né stelle.
L'età nella quale sull'omero di un uccello non c'era fiore che posasse il capo.
Allora, dietro al tuo ventaglio, la nostra prima luna.
Non aveva la rosa compleanni o l'arcangelo. Tutto, anteriore al pianto e al belato. Quando ancora la luce non sapeva se il mare nascerebbe maschio o femmina. Quando il vento sognava chiome da pettinare e garofani il fuoco e gote da infiammare e l'acqua, delle labbra ferme a cui abbeverarsi. Tutto, anteriore al corpo, al nome e al tempo.
"Passeggiava con l'abbandono di giglio che mediti, o quasi d'uccello che sappia di dover nascere. Senza vedersi si guardava in una luna a cui il sogno faceva da specchio, in un silenzio di neve che innalzava i passi. Affacciata a un silenzio. Era anteriore all'arpa, alle parole, alla pioggia. Non sapeva. Bianca alunna dell'aria, tremava con le stelle, con il fiore e con gli alberi. Il suo stelo, la verde sua cintura. Con le mie stelle che, di tutto ignoranti, per scavar nei suoi occhi due lagune lei in due mari annegarono.
Biondi, lucidi seni di Amaranta, limati da una lingua di levriero. Portico di limoni, dal sentiero disviati che alla tua gola monta.
Rosso, un ponte di riccioli sormonta il volto e incendia i tuoi ondulati avorii. Morde e ferisce dei denti il biancore, curvo, per aria, ti innalza nel vento.
Solitudine dorme in ombratura, calza il suo piede di zeffiro e scende dall'alto olmo al mar della pianura.
E il corpo in ombra, oscuro, le si accende, e gladiatrice, come brace impura, tra Amaranta e il suo amante si distende.
Venne quello che amavo, quello che invocavo. Non quello che spazza cieli senza difese, astri senza capanne, lune senza patria, nevi. Nevi di quelle cadute da una mano, un nome, un sogno, una fronte. Non quello che alla sua chioma legò la morte. Quello che io amavo. Senza graffiare i venti, senza foglia ferire né smuovere cristalli. Quello che alla sua chioma legò il silenzio. Senza farmi del male, per scavarmi un argine di dolce luce nel petto e rendermi l'anima navigabile.