Scivola contro il muschio del ciottolo come il giorno occhieggia attraverso l'imposta. Una goccia potrebbe fargli da copricapo, due fuscelli vestirlo. Anima in pena d'un pezzetto di terra e di una scheggia di bosso, ne è, nel contempo, il dente maledetto e declive. Suo contrapposto, suo avversario, è il primo albeggiare che, dopo palpato la coperta imbottita e aver sorriso alla mano dell'addormentato, molla la sua forca e fila sul soffitto della stanza. Il sole, secondo venuto, l'abbellisce d'un labbro goloso. Il viperotto resterà freddo sino alla morte numerosa, giacché, non essendo di nessuna parrocchia, è assassino al cospetto di tutte.
Con gli occhi chiusi e nello sforzo d'addormentarmi, vedo rilucere sul fondo delle palpebre una brace ch'è l'anima ostinata, il relitto occhieggiante del glorioso naufragio della mia giornata.
Camminavo fra le gobbe d'un terreno ripulito, i segreti respiri, le piante senza memoria. La montagna si alzava, fiala colma d'ombra, che a tratti il gesto della sete stringeva. La mia traccia, la mia esistenza si perdeva. Il tuo volto scivolava all'indietro davanti a me. Non era che una macchia in cerca dell'ape che l'avrebbe fatta fiore e dichiarata viva. Stavamo per separarci. Tu saresti rimasta sull'altipiano degli aromi e io sarei penetrato nel giardino del vuoto. Là, sotto la salvaguardia delle rocce, nella pienezza del vento, avrei chiesto alla notte vera di disporre del mio sonno per accrescere la tua felicità. E tutti i frutti ti sarebbero appartenuti.