Il verginale, il bello e il vivace presente Con un colpo dell'ala ebbra ecco ci spezza Il duro lago obliato chiuso dal trasparente Ghiacciaio di quei voli che mai seppero altezza!
Un cigno d'altri giorni se stesso a ricordare S'abbandona magnifico, ma ormai senza rimedio Per non aver cantato la plaga ove migrare Quando già dello sterile inverno splenda il tedio.
Questa bianca agonia inflitta nello spazio Al collo che lo nega lo scuoterà di strazio, Ma non l'orror del suolo dove sta prigioniero.
Forma che dona ai luoghi il suo candor di giglio, Il Cigno senza moto nell'inutile esilio Si veste del disprezzo d'un gelido pensiero.
Prendi questa borsa, Mendicante! Tu non l'hai carezzata vecchio poppante a una mammella avara per distillarne soldo a soldo il tuo rintocco funebre.
Ma cava dall'amato metallo qualche estroso peccato e vasto come noi, quando a manciate lo baciamo, e soffia, che si torca! Un'ardente fanfara.
Tutte chiese velate dall'incenso queste case quando ai muri cullando una bluastra fosforescente tacito il tabacco svolge orazioni, e l'oppio strapotente sbaraglia i farmachi! Anche tu, stracci e pelle, vuoi forse lacerare la sete e bere con la tua saliva un'inerzia felice, nei caffè principeschi attendere il mattino?
Soffitti sovraccarichi di ninfe e veli; si getta al mendicante oltre i vetri un festino.
E quando esci vecchio dio, tremando nel tuo sacco d'imballaggio, l'aurora è come un lago di vino d'oro e tu giuri d'avere le stelle in gola!
Invece di contare il luccicante tuo tesoro, almeno potrai pavoneggiarti di una piuma, accendere a completa al santo in cui ancora credi, un certo.
Non pensate che io dica follie: vecchi la terra s'apre a chi crepa di fame. Odio un'altra elemosina e voglio che mi scordi.
Soprattutto, fratello, non andare a comprarti del pane.
Saluto di demenza e libagione oscura, Certo non alla magica speranza del passaggio Alzo la coppa in cui soffre un mostro dorato! La tua apparizione ormai più non mi basta: Poiché io stesso in luogo di porfido t'ho posto. Il rito è per le mani d'estinguere la face Contro le ferree porte del sepolcro che tace: E mal s'ignora, eletto per questa nostra quieta Festa di celebrare l'assenza del poeta, Che questo bel sepolcro in sé lo chiude intero. Eccetto che la gloria ardente del mestiere, Fino all'ora comune e vile della cenere, Pel vetro acceso d'una sera fiera di scendere, Ritorna verso i fuochi del puro sol mortale!
Magnifico, totale e solitario, tale Esalando vacilla il falso orgoglio umano. Questa folla feroce! Essa annuncia: noi siamo La triste opacità di noi spettri futuri. Ma il blasone dei lutti sparso su vani muri D'una lacrima il lucido orrore ho disprezzato, Quando, sordo al mio sacro distico, né allarmato, Qualcuno dei passanti, superbo, cieco e muto, Ravvolto nel suo vago sudario, si trasmuta Nell'eroe intangibile della postuma attesa. Vasto abisso portato nelle nebbie a distesa Dal turbo di parole ch'egli non disse ancora, Il nulla a questo Uomo abolito di allora: "Memorie d'orizzonti, cos'è, o tu, la Terra? " Urla quel sogno; e, voce la cui luce si perda, Lo spazio ha per trastullo il grido: "Io non so! "
Il Maestro, col grave occhio, pacificò Sui suoi passi dell'eden l'inquieta meraviglia Il cui finale brivido, sol con la voce, sveglia Il mistero d'un nome per il Giglio e la Rosa. Resta, di questa sorte, resta mai qualche cosa? Una oscura credenza, o voi tutti, v'ingombra. Il genio luminoso eterno non ha ombra. Io voglio, pensieroso di voi, voglio vedere A chi si dileguò, ieri, dentro il dovere Ideale che sono i parchi di quest'astro Restare per l'onore del tranquillo disastro Una solenne, vasta agitazione in cielo Di parole, ebbra porpora, calice sullo stelo, Che quel diafano sguardo, diamante, acqua d'aurora, Rimasto là sui fiori di cui nessuno muore, Alza solo tra l'ora ed il raggio del giorno!
Dei nostri veri parchi è già tutto il soggiorno, Dove il poeta puro, col gesto largo e mite Al sogno, del suo còmpito nemico, lo interdice; Affinché nel mattino del suo riposo altero Sorga, ornamento al bianco viale del cimitero, Quando l'antica morte è come per Gautier Di non aprire i sacri occhi e tacere in sé, Il solido sepolcro che tutti i danni inghiotte, E l'avaro silenzio e la pesante notte.
Stanco del triste ospizio e del fetore oscuro Che sale tra il biancore banale delle tende Verso il gran crocifisso tediato al nudo muro, Sornione un vecchio dorso vi raddrizza il morente:
Trascina il pelo bianco e l'ossa magre, lento, Alle vetrate che un raggio chiaro indora, Meno per riscaldare il suo disfacimento Che per vedere il sole sopra le piere ancora.
E la bocca, febbrile e d'azzurro assetata, (Essa così aspirava, giovane, il suo tesoro, Un corpo verginale e d'allora) ha lordato D'un lungo amaro bacio il caldo vetro d'oro.
Ebbro, vive, ed oblia la condanna del letto, L'orologio, la tosse, le fiale, l'ora estrema, E allorquando la sera sanguina sopra il tetto, Con l'occhio all'orizzonte, nella luce serena,
Vede galere d'oro, splendide come cigni, Dormire sopra un fiume di porpora e d'essenze, Cullando il fulvo e ricco lampo dei lor profili, Ricolme di ricordo, di vasta indifferenza!
Così, colto da nausea dell'uomo, anima dura, Che s'imbraga felice, per gli appetiti soli Mangiando, ed ostinato cerca questa lordura Per offrirla alla donna che gli allatta figliuoli,
Io fuggo e mi attacco a tutte le vetrate Dove si volge il dorso alla vita e al destino, E nel vetro, lavato dall'eterne rugiade, Che l'Infinito indora col suo casto mattino,
Mi contemplo e mi vedo angelo! E muoio, e torno -Che il cristallo sia l'arte o la mistica ebbrezza- A nascer, col mio sogno diadema al capo intorno, Dove, in cieli anteriori, fiorisce la Bellezza.
Ma ahimè il Quaggiù impera: fino a questo sicuro Rifugio esso perviene talora a nausearmi, E la Stupidità, col suo vomito impuro, Mi fa turar le nari innanzi ai cieli calmi.
Non tenteremo, o Me che sai amare pene, D'infrangere il cristallo cui insulta l'Averno, E di fuggire infine, mie ali senza penne, A volo con il rischio di cadere in eterno?
Non vengo questa sera per il tuo corpo, o bestia Che i peccati d'un popolo accogli, né a scavare Nei tuoi capelli impuri una triste tempesta Sotto il tedio incurabile che versa il mio baciare: Chiedo al tuo letto il sonno pesante, senza sogni, Librato sotto il velo segreto dei rimorsi, E che tu puoi gustare dopo le tue menzogne Nere, tu che del nulla conosci più che i morti. Poi che il Vizio, rodendomi l'antica nobiltà, M'ha come te segnato di sua sterilità; Ma mentre nel tuo seno di pietra abita un cuore Che crimine o rimorso mai potrà divorare, Io pallido, disfatto, fuggo col mio sudario, Sgomento di morire se dormo solitario.
Dalle valanghe d'oro del vecchio azzurro, il giorno Primevo e dalla neve immortale degli astri, Un tempo i grandi calici tu ritagliasti intorno, Per la terra ancor giovane, vergine di disastri,
Il gladiolo selvaggio, cigni dal collo fino, E quel divino lauro dell'anime esiliate Vermiglio come l'alluce puro del serafino Che colora un pudore d'aurore calpestate,
Il giacinto ed il mirto, adorato bagliore, E, - simile alla carne della donna, la rosa Crudele, del giardino chiaro Erodiade in fiore, Quella che uno splendente feroce sangue irrora!
Tu facesti il candore dei gigli singhiozzanti Che mari di sospiri sorvola dolcemente E per l'azzurro incenso dei pallidi orizzonti In sogno lento sale alla luna piangente!
Osanna sopra il sistro e dentro l'incensiere, Nostra Signora, osanna da questi nostri limbi! E si disperda l'eco nelle celesti sere, Estasi degli sguardi, scintillio dei nimbi!
O Madre, che creasti nel seno giusto e forte, Calici in sé cullanti una futura essenza, Grandi corolle con la balsamica Morte Per lo stanco poeta roso dall'esistenza.
Principessa! A invidiare d'un'Ebe la ventura Che ai labbri e al vostro bacio spunta sulla tazzina, Consumo gli occhi, ma la discreta figura Mia d'abate neppure starebbe sul piattino.
Poi ch'io non sono il tuo cagnolino barbuto, Né il dolce, né il rossetto, né giuochi birichini, E su di me il tuo sguardo chiuso io so caduto, Bionda cui acconciarono orefici divini!
Sceglieteci... tu cui le risa di lampone Si congiungono in gregge come agnellette buone Brucando in tutti i voti, belando paradisi;
Affinché Amore alato d'un ventaglio sottile Mi vi pinga col flauto mentre addormo l'ovile, Principessa, sceglieteci pastor dei tuoi sorrisi.
Intristiva la luna. Serafini in lacrime sognando, l'archetto alzato nella calma dei fiori vaporosi, rapivano da morbide viole bianchi singhiozzi, in un glissando sull'azzurro delle corolle. - Ed era quello il giorno benedetto del tuo primo bacio. Alla mia fantasia piacendo un martirio s'inebriava sapiente di quel profumo di tristezza che lascia anche senza disagio o rimpianto il cogliere un Sogno all'anima che l'ha colto. Dunque vagavo, l'occhio fitto al selciato consunto, quando col sole dentro i capelli, nella via, nella sera tu m'apparisti ridente e credetti vedere la fata dal cappello di luce che un tempo sui miei bei sonni di bimbo viziato passava, lasciando sempre dalle sue mani dischiuse fioccare bianchi mazzetti di stelle odorose.