Esiste una bocca scolpita, un volto d'angiolo chiaro e ambiguo, una opulenta creatura pallida dai denti di perla, dal passo spedito, esiste il suo sorriso aereo, dubbio, lampante, come un indicibile evento di luce.
Viviamo d'un fremito d'aria, d'un filo di luce, dei più vaghi e fuggevoli moti del tempo, di albe furtive, di amori nascenti, di sguardi inattesi.
E per esprimere quel che sentiamo c'è una parola sola: disperazione. Dolce, infinita, profonda parola.
Vaga e triste è degli uomini la sorte: degli uomini che passano con non maggior fragore d'una foglia che si tramuta in terra.
Precario stato il loro.
La morte è uno sciogliersi, non un finire e senza tempo, senza memoria il terrestre viaggio.
Il sole è stanco di contemplare una tanto monotona vicenda. Così parlava un monaco neghittoso e bizzarro, là, nell'antico Oriente: piccolo uomo assediato da immani fantasmi.
Volata sei, fuggita come una colomba e ti sei persa là, verso oriente. Ma son rimasti i luoghi che ti videro e l'ore dei nostri incontri. Ore deserte, luoghi per me divenuti un sepolcro a cui faccio la guardia.
È la Liguria terra leggiadra. Il sasso ardente, l'argilla pulita, s'avvivano di pampini al sole. È gigante l'ulivo. A primavera appar dovunque la mimosa effimera. Ombra e sole s'alternano per quelle fondi valli che si celano al mare, per le vie lastricate che vanno in su, fra campi di rose, pozzi e terre spaccate, costeggiando poderi e vigne chiuse. In quell'arida terra il sole striscia sulle pietre come un serpe. Il mare in certi giorni è un giardino fiorito. Reca messaggi il vento. Venere torna a nascere ai soffi del maestrale. O chiese di Liguria, come navi disposte a esser varate! O aperti ai venti e all'onde liguri cimiteri! Una rosea tristezza vi colora quando di sera, simile ad un fiore che marcisce, la grande luce si va sfacendo e muore.
Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni che, perduti nel tempo, c'incontrammo, alla nostra incresciosa intimità. Ci siamo sempre lasciati senza salutarci, con pentimenti e scuse da lontano. Ci siam riaspettati al passo, bestie caure, cacciatori affinati, a sostenere faticosamente la nostra parte di estranei. Ritrosie disperanti, pause vertiginose e insormontabili, dicevan, nelle nostre confidenze, il contatto evitato e il vano incanto. Qualcosa ci è sempre rimasto, amaro vanto, di non aver ceduto ai nostri abbandoni, qualcosa ci è sempre mancato.
Già di settembre imbrunano a Venezia i crepuscoli precoci e di gramaglie vestono le pietre. Dardeggia il sole l'ultimo suo raggio sugli ori dei mosaici ed accende fuochi di paglia, effimera bellezza.
L'alito freddo e umido m'assale di Venezia autunnale. Adesso che l'estate, sudaticcia e sciroccosa, d'incanto se n'è andata, una rigida luna settembrina risplende, piena di funesti presagi, sulla città d'acque e di pietre che rivela il suo volto di medusa contagiosa e malefica. Morto è il silenzio dei canali fetidi, sotto la luna acquosa, in ciascuno dei quali par che dorma il cadavere d'Ofelia: tombe sparse di fiori marci e d'altre immondizie vegetali, dove passa sciacquando il fantasma del gondoliere. O notti veneziane, senza canto di galli, senza voci di fontane, tetre notti lagunari cui nessun tenero bisbiglio anima, case torve, gelose, a picco sui canali, dormenti senza respiro, io v'ho sul cuore adesso più che mai. Qui non i venti impetuosi e funebri del settembre montanino, non odor di vendemmia, non lavacri di piogge lacrimose, non fragore di foglie che cadono. Un ciuffo d'erba che ingiallisce e muore su un davanzale è tutto l'autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali non son che luci smarrite, luci che sognano la buona terra odorosa e fruttifera. Solo il naufragio invernale conviene a questa città che non vive, che non fiorisce, se non quale una nave in fondo al mare.
Con lo scender che fa le nubi a valle, prese a lembi qua e là come ragne fra gli alberi intricate, si colorano i monti di viola. Dolce vagare allora per chi s'affanna il giorno ed in se stesso, incredulo, si torce. Viene dai borghi, qui sotto, in faccende, un vociar lieto e folto in cui si sente il giorno che declina e il riposo imminente. Vi si mischia il pulsare, il batter secco ed alto del camion sullo stradone bianco che varca i monti. E tutto quanto a sera, grilli, campane, fonti, fa concerto e preghiera, trema nell'aria sgombra. Ma come più rifulge, nell'ora che non ha un'altra luce, il manto dei tuoi fianchi ampi, Appennino. Sui tuoi prati che salgono a gironi, questo liquido verde, che rispunta fra gl'inganni del sole ad ogni acquata, al vento trascolora, e mi rapisce, per l'inquieto cammino, sì che teneramente fa star muta l'anima vagabonda.
Morire sì, non essere aggrediti dalla morte. Morire persuasi che un siffatto viaggio sia il migliore. E in quell'ultimo istante essere allegri come quando si contano i minuti dell'orologio della stazione e ognuno vale un secolo. Poi che la morte è la sposa fedele che subentra all'amante traditrice, non vogliamo riceverla da intrusa, né fuggire con lei. Troppo volte partimmo senza commiato! Sul punto di varcare in un attimo il tempo, quando pur la memoria di noi s'involerà, lasciaci, o Morte, dire al mondo addio, concedici ancora un indugio. L'immane passo non sia precipitoso. Al pensier della morte repentina il sangue mi si gela. Morte non mi ghermire ma da lontano annunciati e da amica mi prendi come l'estrema delle mie abitudini.
Non so dove i gabbiani abbiano il nido, ove trovino pace. Io son come loro in perpetuo volo. La vita la sfioro com'essi l'acqua ad acciuffare il cibo. E come forse anch'essi amo la quiete, la gran quiete marina, ma il mio destino è vivere balenando in burrasca.