Un tempo, era d'estate, era a quel fuoco, a quegli ardori, che si destava la mia fantasia. Inclino adesso all'autunno dal colore che inebria, amo la stanca stagione che ha già vendemmiato. Niente più mi somiglia, nulla più mi consola, di quest'aria che odora di mosto e di vino, di questo vecchio sole ottobrino che splende sulla vigne saccheggiate.
Sole d'autunno inatteso, che splendi come in un di là, con tenera perdizione e vagabonda felicità, tu ci trovi fiaccati, vòlti al peggio e la morte nell'anima. Ecco perché ci piaci, vago sole superstite che non sai dirci addio, tornando ogni mattina come un nuovo miracolo, tanto più bello quanto più t'inoltri e sei lì per spirare. E di queste incredibili giornate vai componendo la tua stagione ch'è tutta una dolcissima agonia.
Morire sì, non essere aggrediti dalla morte. Morire persuasi che un siffatto viaggio sia il migliore. E in quell'ultimo istante essere allegri come quando si contano i minuti dell'orologio della stazione e ognuno vale un secolo. Poi che la morte è la sposa fedele che subentra all'amante traditrice, non vogliamo riceverla da intrusa, né fuggire con lei. Troppo volte partimmo senza commiato! Sul punto di varcare in un attimo il tempo, quando pur la memoria di noi s'involerà, lasciaci, o Morte, dire al mondo addio, concedici ancora un indugio. L'immane passo non sia precipitoso. Al pensier della morte repentina il sangue mi si gela. Morte non mi ghermire ma da lontano annunciati e da amica mi prendi come l'estrema delle mie abitudini.
L'alito freddo e umido m'assale di Venezia autunnale. Adesso che l'estate, sudaticcia e sciroccosa, d'incanto se n'è andata, una rigida luna settembrina risplende, piena di funesti presagi, sulla città d'acque e di pietre che rivela il suo volto di medusa contagiosa e malefica. Morto è il silenzio dei canali fetidi, sotto la luna acquosa, in ciascuno dei quali par che dorma il cadavere d'Ofelia: tombe sparse di fiori marci e d'altre immondizie vegetali, dove passa sciacquando il fantasma del gondoliere. O notti veneziane, senza canto di galli, senza voci di fontane, tetre notti lagunari cui nessun tenero bisbiglio anima, case torve, gelose, a picco sui canali, dormenti senza respiro, io v'ho sul cuore adesso più che mai. Qui non i venti impetuosi e funebri del settembre montanino, non odor di vendemmia, non lavacri di piogge lacrimose, non fragore di foglie che cadono. Un ciuffo d'erba che ingiallisce e muore su un davanzale è tutto l'autunno veneziano.
Così a Venezia le stagioni delirano.
Pei suoi campi di marmo e i suoi canali non son che luci smarrite, luci che sognano la buona terra odorosa e fruttifera. Solo il naufragio invernale conviene a questa città che non vive, che non fiorisce, se non quale una nave in fondo al mare.
Già di settembre imbrunano a Venezia i crepuscoli precoci e di gramaglie vestono le pietre. Dardeggia il sole l'ultimo suo raggio sugli ori dei mosaici ed accende fuochi di paglia, effimera bellezza.