Scritta da: Silvana Stremiz

La Tovaglia

Le dicevano: - Bambina!
Che tu non lasci mai stesa,
dalla sera alla mattina,
ma porta dove l'hai presa,
la tovaglia bianca, appena
ch'è terminata la cena!
Bada, che vengono i morti!
I tristi, i pallidi morti!
Entrano, ansimano muti.
Ognuno è tanto mai stanco!
E si fermano seduti
la notte intorno a quel bianco.
Stanno lì sino al domani,
col capo tra le due mani,
senza che nulla si senta,
sotto la lampada spenta. -
È già grande la bambina:
la casa regge, e lavora:
fa il bucato e la cucina,
fa tutto al modo d'allora.
Pensa a tutto, ma non pensa
a sparecchiare la mensa.
Lascia che vengano i morti,
i buoni, i poveri morti.
Oh! la notte nera nera,
di vento, d'acqua, di neve,
lascia ch'entrino da sera,
col loro anelito lieve;
che alla mensa torno torno
riposino fino a giorno,
cercando fatti lontani
col capo tra le due mani.
Dalla sera alla mattina,
cercando cose lontane,
stanno fissi, a fronte china,
su qualche bricia di pane,
e volendo ricordare,
bevono lagrime amare.
Oh! non ricordano i morti,
i cari, i cari suoi morti!
- Pane, sì... pane si chiama,
che noi spezzammo concordi:
ricordate?... È tela, a dama:
ce n'era tanta: ricordi?...
Queste?... Queste sono due,
come le vostre e le tue,
due nostre lagrime amare
cadute nel ricordare! -.
dal libro "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli
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    Scritta da: Silvana Stremiz

    La canzone della granata

    Ricordi quand'eri saggina,
    coi penduli grani che il vento
    scoteva, come una manina
    di bimbo il sonaglio d'argento?
    Cadeva la brina; la pioggia
    cadeva: passavano uccelli
    gemendo: tu gracile e roggia
    tinnivi coi cento ramelli.
    Ed oggi non più come ieri
    tu senti la pioggia e la brina,
    ma sgrigioli come quand'eri
    saggina.
    Restavi negletta nei solchi
    quand'ogni pannocchia fu colta:
    te, colsero, quando i bifolchi
    v'ararono ancora una volta.
    Un vecchio ti prese, recise,
    legò; ti privò della bella
    semenza tua rossa; e ti mise
    nell'angolo, ad essere ancella.
    E in casa tu resti, in un canto,
    negletta qui come laggiù;
    ma niuno è di casa pur quanto
    sei tu.
    Se t'odia colui che la trama
    distende negli alti solai,
    l'arguta gallina pur t'ama,
    cui porti la preda che fai.
    E t'ama anche senza, ché ai costi
    ti sbalza, ed i grani t'invola,
    residui del tempo che fosti
    saggina, nei campi già sola.
    Ma più, gracilando t'aspetta
    con ciò che in tua vasta rapina
    le strascichi dalla già netta
    cucina.
    Tu lasci che t'odiino, lasci
    che t'amino: muta, il tuo giorno,
    nell'angolo, resti, coi fasci
    di stecchi che attendono il forno.
    Nell'angolo il giorno tu resti,
    pensosa del canto del gallo;
    se al bimbo tu già non ti presti,
    che viene, e ti vuole cavallo.
    Riporti, con lui che ti frena,
    le paglie ch'hai tolte, e ben più;
    e gioia or n'ha esso; ma pena
    poi tu.
    Sei l'umile ancella; ma reggi
    la casa: tu sgridi a buon'ora,
    mentre impaziente passeggi,
    gl'ignavi che dormono ancora.
    E quanto tu muovi dal canto,
    la rondine è ancora nel nido;
    e quando comincia il suo canto,
    già ode per casa il tuo strido.
    E l'alba il suo cielo rischiara,
    ma prima lo spruzza e imperlina,
    così come tu la tua cara
    casina.
    Sei l'umile ancella, ma regni
    su l'umile casa pulita.
    Minacci, rimproveri; insegni
    ch'è bella, se pura, la vita.
    Insegni, con l'acre tua cura
    rodendo la pietra e la creta,
    che sempre, per essere pura,
    si logora l'anima lieta.
    Insegni, tu sacra ad un rogo
    non tardo, non bello, che più
    di ciò che tu mondi, ti logori
    tu!
    dal libro "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      La Guazza

      Laggiù, nella notte, tra scosse
      d'un lento sonaglio, uno scalpito
      è fermo. Non anco son rosse
      le cime dell'Alpi.
      Nel cielo d'un languido azzurro,
      le stelle si sbiancano appena:
      si sente un confuso sussurro
      nell'aria serena.
      Chi passa per tacite strade?
      Chi parla da tacite soglie?
      Nessuno. È la guazza che cade
      sopr'aride foglie.
      Si parte, ch'è ora, né giorno,
      sbarrando le vane pupille;
      si parte tra un murmure intorno
      di piccole stille.
      In mezzo alle tenebre sole,
      qualcuna riluce un minuto;
      riflette il tuo Sole, o mio Sole;
      poi cade: ha veduto.
      dal libro "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        La fonte di Castelvecchio

        O voi che, mentre i culmini Apuani
        il sole cinge d'un vapor vermiglio,
        e fa di contro splendere i lontani
        vetri di Tiglio;
        venite a questa fonte nuova, sulle
        teste la brocca, netta come specchio,
        equilibrando tremula, fanciulle
        di Castelvecchio;
        e nella strada che già s'ombra, il busso
        picchia dè duri zoccoli, e la gonna
        stiocca passando, e suona eterno il flusso
        della Corsonna:
        fanciulle, io sono l'acqua della Borra,
        dove brusivo con un lieve rombo
        sotto i castagni; ora convien che corra
        chiusa nel piombo.
        A voi, prigione dalle verdi alture,
        pura di vena, vergine di fango,
        scendo; a voi sgorgo facile: ma, pure
        vergini, piango:
        non come piange nel salir grondando
        l'acqua tra l'aspro cigolìo del pozzo:
        io solo mando tra il gorgoglio blando
        qualche singhiozzo.
        Oh! la mia vita di solinga polla
        nel taciturno colle delle capre!
        Udir soltanto foglia che si crolla,
        cardo che s'apre,
        vespa che ronza, e queruli richiami
        del forasiepe! Il mio cantar sommesso
        era tra i poggi ornati di ciclami
        sempre lo stesso;
        sempre sì dolce! E nelle estive notti,
        più, se l'eterno mio lamento solo
        s'accompagnava ai gemiti interrotti
        dell'assiuolo,
        più dolce, più! Ma date a me, ragazze
        di Castelvecchio, date a me le nuove
        del mondo bello: che si fa? Le guazze
        cadono, o piove?
        E per le selve ancora si tracoglie,
        o fate appietto? Ed il metato fuma,
        o già picchiate? Aspettano le foglie
        molli la bruma,
        o le crinelle empite nè frondai
        in cui dall'Alpe è scesa qualche breve
        frasca di faggio? Od è già l'Alpe ormai
        bianca di neve?
        Più nulla io vedo, io che vedea non molto
        quando chiamavo, con il mio rumore
        fresco, il fanciullo che cogliea nel folto
        macole e more.
        Col nepotino a me venìa la bianca
        vecchia, la Matta; e tuttavia la vedo
        andare come vaccherella stanca
        va col suo redo.
        Nella deserta chiesa che rovina,
        vive la bianca Matta dei Beghelli
        più? Desta lei la sveglia mattutina
        più, dè fringuelli?
        Essa veniva al garrulo mio rivo
        sempre garrendo dentro sé, la vecchia:
        e io, garrendo ancora più, l'empivo
        sempre la secchia.
        Ah! che credevo d'essere sua cosa!
        Con lei parlavo, ella parlava meco,
        come una voce nella valle ombrosa
        parla con l'eco.
        Però singhiozzo ripensando a questa
        che lasciai nella chiesa solitaria,
        che avea due cose al mondo, e gliene resta
        l'una, ch'è l'aria.
        dal libro "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          La canzone del Girarrosto

          Domenica! Il dì che a mattina
          sorride e sospira al tramonto!...
          Che ha quella teglia in cucina?
          Che brontola brontola brontola...
          È fuori un frastuono di giuoco,
          per casa è un sentore di spigo...
          Che ha quella pentola al fuoco?
          Che sfrigola sfrigola sfrigola...
          E già la massaia ritorna
          da messa;
          così come trovasi adorna,
          s'appressa:
          la brage qua copre, là desta,
          passando, frr, come in un volo,
          spargendo un odore di festa,
          di nuovo, di tela e giaggiolo.
          La macchina è in punto; l'agnello
          nel lungo schidione è già pronto;
          la teglia è sul chiuso fornello,
          che brontola brontola brontola...
          Ed ecco la macchina parte
          da sé, col suo trepido intrigo:
          la pentola nera è da parte,
          che sfrigola sfrigola sfrigola...

          Ed ecco che scende, che sale,
          che frulla,
          che va con un dondolo eguale
          di culla.
          La legna scoppietta; ed un fioco
          fragore all'orecchio risuona
          di qualche invitato, che un poco
          s'è fermo su l'uscio, e ragiona.
          È l'ora, in cucina, che troppi
          due sono, ed un solo non basta:
          si cuoce, tra murmuri e scoppi,
          la bionda matassa di pasta.
          Qua, nella cucina, lo svolo
          di piccole grida d'impero;
          là, in sala, il ronzare, ormai solo,
          d'un ospite molto ciarliero.
          Avanti i suoi ciocchi, senz'ira
          né pena,
          la docile macchina gira
          serena,
          qual docile servo, una volta
          ch'ha inteso, né altro bisogna:
          lavora nel mentre che ascolta,
          lavora nel mentre che sogna.
          Va sempre, s'affretta, ch'è l'ora,
          con una vertigine molle:
          con qualche suo fremito incuora
          la pentola grande che bolle.
          È l'ora: s'affretta, né tace,
          ché sgrida, rimprovera, accusa,
          col suo ticchettìo pertinace,
          la teglia che brontola chiusa.
          Campana lontana si sente
          sonare.
          Un'altra con onde più lente,
          più chiare,
          risponde. Ed il piccolo schiavo
          già stanco, girando bel bello,
          già mormora, in tavola! In tavola!,
          e dondola il suo campanello.
          dal libro "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli
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            Scritta da: Silvana Stremiz

            In ritardo

            E l'acqua cade su la morta estate,
            e l'acqua scroscia su le morte foglie;
            e tutto è chiuso, e intorno le ventate
            gettano l'acqua alle inverdite soglie;
            e intorno i tuoni brontolano in aria;
            se non qualcuno che rotola giù.
            Apersi un poco la finestra: udii
            rugliare in piena due torrenti e un fiume;
            e mi parve d'udir due scoppiettìi
            e di vedere un nereggiar di piume.
            O rondinella spersa e solitaria,
            per questo tempo come sei qui tu?
            Oh! non è questo un temporale estivo
            col giorno buio e con la rosea sera,
            sera che par la sera dell'arrivo,
            tenera e fresca come a primavera,
            quando, trovati i vecchi nidi al tetto,
            li salutava allegra la tribù.
            Se n'è partita la tribù, da tanto!
            Tanto, che forse pensano al ritorno,
            tanto, che forse già provano il canto
            che canteranno all'alba di quel giorno:
            sognano l'alba di San Benedetto
            nel lontano Baghirmi e nel Bornù.
            E chiudo i vetri. Il freddo mi percuote,
            l'acqua mi sferza, mi respinge il vento.
            Non più gli scoppiettìi, ma le remote
            voci dei fiumi, ma sgrondare io sento
            sempre più l'acqua, rotolare il tuono,
            il vento alzare ogni minuto più.
            E fuori vedo due ombre, due voli,
            due volastrucci nella sera mesta,
            rimasti qui nel grigio autunno soli,
            ch'aliano soli in mezzo alla tempesta:
            rimasti addietro il giorno del frastuono,
            delle grida d'amore e gioventù.
            Son padre e madre. C'è sotto le gronde
            un nido, in fila con quei nidi muti,
            il lor nido che geme e che nasconde
            sei rondinini non ancor pennuti.
            Al primo nido già toccò sventura.
            Fecero questo accanto a quel che fu.
            Oh! tardi! Il nido ch'è due nidi al cuore,
            ha fame in mezzo a tante cose morte;
            e l'anno è morto, ed anche il giorno muore,
            e il tuono muglia, e il vento urla più forte,
            e l'acqua fruscia, ed è già notte oscura,
            e quello ch'era non sarà mai più.
            dal libro "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli
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              Scritta da: Silvana Stremiz

              L'uccellino del freddo

              Viene il freddo. Giri per dirlo
              tu, sgricciolo, intorno le siepi;
              e sentire fai nel tuo zirlo
              lo strido di gelo che crepi.
              Il tuo trillo sembra la brina
              che sgrigiola, il vetro che incrina...
              trr trr trr terit tirit...
              Viene il verno. Nella tua voce
              c'è il verno tutt'arido e tecco.
              Tu somigli un guscio di noce,
              che ruzzola con rumor secco.
              T'ha insegnato il breve tuo trillo
              con l'elitre tremule il grillo...
              trr trr trr terit tirit...
              Nel tuo verso suona scrio scrio,
              con piccoli crepiti e stiocchi,
              il segreto scricchiolettio
              di quella catasta di ciocchi.
              Uno scricchiolettio ti parve
              d'udirvi cercando le larve...
              trr trr trr terit tirit...
              Tutto, intorno, screpola rotto.
              Tu frulli ad un tetto, ad un vetro.
              Così rompere odi lì sotto,
              così screpolare lì dietro.
              Oh! lì dentro vedi una vecchia
              che fiacca la stipa e la grecchia...
              trr trr trr terit tirit...
              Vedi il lume, vedi la vampa.
              Tu frulli dal vetro alla fratta.
              Ecco un tizzo soffia, una stiampa
              già croscia, una scorza già scatta.
              Ecco nella grigia casetta
              l'allegra fiammata scoppietta...
              trr trr trr terit tirit...
              Fuori, in terra, frusciano foglie
              cadute. Nell'Alpe lontana
              ce n'è un mucchio grande che accoglie
              la verde tua palla di lana.
              Nido verde tra foglie morte,
              che fanno, ad un soffio più forte...
              trr trr trr terit tirit...
              dal libro "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli
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                Scritta da: Silvana Stremiz

                Il sole e la lucerna

                In mezzo ad uno scampanare fioco
                sorse e batté su taciturne case
                il sole, e trasse d'ogni vetro il fuoco.
                C'era ad un vetro tuttavia, rossastro
                un lumicino. Ed ecco il sol lo invase,
                lo travolse in un gran folgorìo d'astro.
                E disse, il sole: - Atomo fumido! Io
                guardo, e tu fosti. - A lui l'umile fiamma:
                - Ma questa notte tu non c'eri, o dio;
                e un malatino vide la sua mamma
                alla mia luce, fin che tu sei sorto.
                Oh! grande sei, ma non ti vede: è morto! -
                E poi, guizzando appena:
                - Chiedeva te! Che tosse!
                Voleva te! Che pena!
                Tu ricordavi al cuore
                suo le farfalle rosse
                su le ginestre in fiore!
                Io stavo lì da parte...
                gli rammentavo sere
                lunghe di veglia e carte
                piene di righe nere!
                Stavo velata e trista,
                per fargli il ben non vista. -.
                dal libro "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli
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                  Scritta da: Silvana Stremiz

                  Il poeta solitario

                  O dolce usignolo che ascolto
                  (non sai dove), in questa gran pace
                  cantare cantare tra il folto,
                  là, dei sanguini e delle acace;
                  t'ho presa - perdona, usignolo -
                  una dolce nota, sol una,
                  ch'io canto tra me, solo solo,
                  nella sera, al lume di luna.
                  E pare una tremula bolla
                  tra l'odore acuto del fieno,
                  un molle gorgoglio di polla,
                  un lontano fischio di treno...
                  Chi passa, al morire del giorno,
                  ch'ode un fischio lungo laggiù
                  riprende nel cuore il ritorno
                  verso quello che non è più.
                  Si trova al nativo villaggio,
                  vi ritrova quello che c'era:
                  l'odore di mesi-di-maggio
                  buon odor di rose e di cera.
                  Ne ronzano le litanie,
                  come l'api intorno una culla:
                  ci sono due voci sì pie!
                  Di sua madre e d'una fanciulla.
                  Poi fatto silenzio, pian piano,
                  nella nota mia, che t'ho presa,
                  risente squillare il lontano
                  campanello della sua chiesa.
                  Riprende l'antica preghiera,
                  ch'ora ora non ha perché;
                  si trova con quello che c'era,
                  ch'ora ora ora non c'è...
                  Chi sono? Non chiederlo. Io piango,
                  ma di notte, perch'ho vergogna.
                  O alato, io qui vivo nel fango.
                  Sono un gramo rospo che sogna.
                  dal libro "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli
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                    Scritta da: Silvana Stremiz

                    Temporale

                    È mezzodì. Rintomba.
                    Tacciono le cicale
                    nelle stridule seccie.
                    E chiaro un tuon rimbomba
                    dopo uno stanco, uguale,
                    rotolare di breccie.
                    Rondini ad ali aperte
                    fanno echeggiar la loggia
                    dè lor piccoli scoppi.
                    Già, dopo l'afa inerte,
                    fanno rumor di pioggia
                    le fogline dei pioppi.
                    Un tuon sgretola l'aria.
                    Sembra venuto sera.
                    Picchia ogni anta su l'anta.
                    Serrano. Solitaria
                    s'ode una capinera,
                    là, che canta... che canta...
                    E l'acqua cade, a grosse
                    goccie, poi giù a torrenti,
                    sopra i fumidi campi.
                    S'è sfatto il cielo: a scosse
                    v'entrano urlando i venti
                    e vi sbisciano i lampi.
                    Cresce in un gran sussulto
                    l'acqua, dopo ogni rotto
                    schianto ch'aspro diroccia;
                    mentre, col suo singulto
                    trepido, passa sotto
                    l'acquazzone una chioccia.
                    Appena tace il tuono,
                    che quando al fin già pare,
                    fa tremare ogni vetro,
                    tra il vento e l'acqua, buono,
                    s'ode quel croccolare
                    cò suoi pigolìi dietro.
                    dal libro "Canti di Castelvecchio" di Giovanni Pascoli
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