Poesie dal Libro:Ragioni d'amore

Questo autore lo trovi anche in Frasi & Aforismi.
Anno:
2006
Autore:
Pedro Salinas
Editore:
Passigli

Ah! Quante cose perdute!

Ah! Quante cose perdute
che perdute non erano.
Tutte le serbavi tu.

Minuti grani di tempo,
che portò via un giorno il vento.
Alfabeti nella spuma,
che un giorno il mare travolse.
Io li credevo perduti.

E perdute le nubi
che pretendevo fermare
nel cielo
fissandole con occhiate.
E l'allegria alta
dell'amore, e l'angoscia
di non amare abbastanza,
e l'ansia
di amare, di amarti, di più.
Tutto perduto, tutto
nell'essere stato un tempo,
nel non esistere più.

E allora tu sei venuta
dal buio, radiosa
di giovane pazienza profonda,
agile, perché non pesava
sui tuoi fianchi snelli,
sulle tue spalle nude,
il passato che tu,
così giovane, portavi per me.
Ti guardavo alla luce dei baci
vergini che mi hai dato,
e tempi e spume
e nubi e amori perduti
furono salvi.
Se da me fuggirono un giorno,
non fu per morire
nel nulla.
In te continuavano a vivere.
Ciò che io chiamavo oblio
eri tu.
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    No, non lasciate chiuse

    No, non lasciate chiuse
    le porte della notte,
    del fulmine, del vento,
    di ciò che mai si è visto.
    Restino aperte sempre
    esse, le ben note.
    E tutte, quelle ignote,
    che si aprono
    sui lunghi percorsi
    da tracciare, nell'aria,
    sulle rotte che stanno
    cercandosi un varco
    con volontà oscura
    e ancora non l'hanno trovato
    in punti cardinali.
    Mettete alti segnali,
    astri, meraviglie;
    che si veda chiaramente
    che è qui, che tutto
    desidera accoglierla.
    Perché può venire.
    Oggi o domani, o fra mille
    anni, o il giorno
    penultimo del mondo.
    E tutto
    deve essere così piano
    come la lunga attesa.

    Eppure so che è inutile.
    Che è un gioco mio, tutto,
    aspettarla così
    come folata o brezza,
    temendo che inciampi.
    Perché quando lei verrà
    sfrenata, implacabile,
    a raggiungere me,
    muraglie, nomi, tempi,
    si frangeranno tutti,
    travolti, penetrati
    irresistibilmente
    dalla gigante tempesta del suo amore,
    ormai presenta.
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      Che grande vigilia nel mondo!

      Che gran vigilia il mondo!
      Nulla era fatto.
      Né materia, né numeri,
      né astri, né secoli, nulla.
      Non era nero il carbone
      né tenera era la rosa.
      Nulla era nulla, ancora.
      Com'è ingenuo credere
      che fu il passato di altri
      e in altro tempo, ormai
      irrevocabile, sempre!
      No, il passato era nostro:
      e nemmeno aveva nome.
      Potevamo chiamarlo
      a nostro piacere: stella,
      colibrì, teorema,
      invece che "passato";
      togliergli il suo veleno.
      Un gran vento muoveva
      verso di noi miniere,
      continenti, motori.
      Di che, miniere? Vuote.
      Erano in attesa
      del nostro primo desiderio,
      per essere poi subito
      di rame, di papaveri.
      I porti, le città
      galleggiavano sul mondo,
      ancora senza un posto:
      aspettavano che tu
      dicessi loro: "qui",
      per lanciare le navi,
      le macchine, le feste.
      Macchine impazienti
      perché ancora senza meta;
      ché avrebbero fatto la luce
      se tu l'ordinavi,
      o le notti d'autunno
      se le volevi tu.
      I verbi, indecisi,
      ti guardavano negli occhi
      come cani fedeli,
      tremuli. Il tuo ordine
      avrebbe poi segnato
      il cammino, le azioni.
      Salire? Rabbrividiva
      la loro energia ignorante.
      Era forse andare verso l'alto
      "salire"? E andare verso dove
      era "discendere"?
      Con messaggi ad antipodi,
      ad astri, il tuo ordine
      avrebbe comunicato improvvisa
      coscienza del loro essere.
      Di volare o trascinarsi.
      Il grande mondo vuoto,
      inerte, innanzi a te
      stava: l'impulso
      lo avresti dato tu.
      E accanto a te, vacante,
      non nato ancora, in affanno,
      con gli occhi chiusi,
      il corpo già preparato
      per il dolore o il bacio.
      Con il sangue al suo posto,
      io, in attesa
      – ah, se non mi avessi guardato –
      che tu mi amassi
      e mi dicessi: "ora".
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        Domani. La parola

        "Domani". La parola
        libera, vacante, senza peso,
        si muoveva nell'aria,
        così senz'anima e corpo,
        senza colore né bacio,
        che l'ho lasciata passare
        al mio fianco, nel mio oggi.
        Ma, all'improvviso tu
        hai detto: "io, domani..."
        e tutto si è animato
        di carne e di bandiere.
        Mi si precipitavano
        addosso le promesse
        di seicento colori,
        con vestiti alla moda
        nude, ma tutte
        ricolme di carezze
        in treni o gazzelle
        mi giungevano – acute,
        suoni di violini –
        snelle speranze
        di bocche verginali.
        O veloci e grandi
        come navi, di lontano,
        come balene
        da mari remoti
        immense speranze
        d'un amore senza termine.
        Domani! Che parola
        vibrante, tutta tesa
        di anima e carne rosata,
        corda dell'arco dove
        tu hai messo, acutissima,
        arma di venti anni,
        la freccia più sicura
        quando hai detto: "io..."
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          Lì, oltre il sorriso

          Lì, oltre il sorriso,
          non ti si conosce più.
          Vai e vieni, scivoli
          per un mondo di valzer
          gelati, all'ingiù;
          e passando, i capricci,
          gli impulsi ti carpiscono
          baci senza vocazione,
          a te, la momentanea
          prigioniera dell'agevole.
          "Che allegra!" Dicono tutti.
          Ed è che tu allora
          tenti di essere altra,
          così somigliante
          a te stessa, che ho paura
          di perderti, così.

          Ti seguo. Attendo. So
          che quando non ti osservino
          gallerie né astri,
          quando il mondo crederà
          di sapere ormai chi sei
          e dirà: "sì, ora so",
          tu scioglierai,
          con le braccia in alto,
          dietro i capelli,
          il nodo, guardandomi.
          Senza rumore di cristallo
          cadrà per terra,
          maschera senza peso
          ormai inutile, il riso.
          E quando ti vedrai
          con l'amore che io ti tendo sempre
          come uno specchio ardente,
          tu riconoscerai
          un volto serio, grave,
          una sconosciuta
          alta, pallida e triste,
          la mia amata. Che mi ama
          al di là delle risa.
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            Perché hai nome tu?

            Perché hai nome tu,
            giorno, mercoledì?
            Perché hai nome tu,
            stagione, autunno?
            Allegria, tristezza, sempre
            perché avete nome: amore?

            Se tu non avessi nome
            io non saprei che cos'era
            né come, né quando. Nulla.

            Sa il mare come si chiama,
            di essere il mare? Sanno i venti
            i loro nomi, del sud
            e del nord, oltre
            che di essere puro soffio?
            Se tu non avessi nome,
            tutto sarebbe primo,
            iniziale, tutto scoperto
            da me,
            puro fino al mio bacio.
            Godimento, amore: delizia lenta
            di godere, di amare, senza nome.

            Nome: pugnale conficcato
            nel mezzo di un petto puro
            che sarebbe nostro sempre
            se non fosse per il suo nome.
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              Che allegria, vivere!

              Che allegria, vivere
              e sentirsi vissuto.
              Arrendersi
              alla grande certezza, oscuramente,
              che un altro essere, fuori di me, molto lontano
              mi sta vivendo.
              Che quando gli specchi, le spie,
              mercurio, anime brevi, confermano
              che sono qui, io, immobile,
              serrati gli occhi e le labbra,
              chiuso dall'amore
              della luce, del fiore e dei nomi,
              la verità transvisibile è che cammino
              senza i miei passi, con altri,
              là lontano, e lì
              sto baciando fiori, luci, parlo.
              Che esiste un altro essere con cui io guardo il mondo
              perché sta amandomi con i suoi occhi.
              Che esiste un'altra voce con cui io dico cose
              non sospettate dal mio gran silenzio;
              ed è che anche mi ama con la sua voce.
              La via – che slancio ora! -, ignoranza
              degli atti miei, che lei compie,
              in cui lei vive, duplice, sua e mia.
              E quando lei mi parlerà
              di un cielo scuro, di un paesaggio bianco,
              ricorderò
              stelle che non ho visto, che lei guardava,
              e neve che nevicava nel suo cielo.
              Con la strana delizia di ricordare
              di aver toccato ciò che non toccai
              se non con quelle mani
              che non raggiungo con le mie, tanto distanti.
              E spogliato di sé potrà il mio corpo
              riposare, tranquillo, morto ormai. Morire
              nella certezza alta
              che questo viver mio non era solo
              il mio vivere: era il nostro. E che mi vive
              un altro essere di là della non morte.
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                Sì, tutto è eccesso

                Sì, tutto con eccesso:
                la luce, la vita, il mare!
                Plurale tutto, plurale,
                luci, vite e mari.
                Che salgano, che ascendano
                da dozzine a centinaia,
                da centinaia a migliaia,
                in un'esultante
                ripetizione infinita,
                del tuo amore, unità.
                Tavole, penne e macchine,
                tutto corra a moltiplicare,
                carezza per carezza,
                abbraccio per vulcano.
                Bisogna stancare i numeri.
                Che contino senza posa,
                si ubriachino contando,
                e che non sappiano più
                l'ultimo quale sarà:
                che vita senza termine!
                Una gran torma di zeri
                investa, nel passare,
                le nostre agili felicità,
                e le conduca alla vetta.
                Si spezzino le cifre,
                senza riuscire al calcolo
                né del tempo né dei baci.
                E ormai al di là
                di computi, di fati,
                abbandonarci alla cieca
                – quale penultimo eccesso! –
                al grande abisso del caso
                che irresistibilmente
                sta
                cantandoci con grida
                fulgide di futuro:
                "e questo non è niente.
                Cercate bene, c'è dell'altro".
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                  Che giorno incontaminato!

                  Che giorno incontaminato!
                  La spuma, di ora in ora,
                  instancabilmente,
                  bianca, bianca, bianca.
                  Innocenti materie,
                  i corpi e le rocce
                  – dallo zenit totale
                  mezzogiorno assoluto –
                  stavano
                  vivendo della luce,
                  per la luce, nella luce.
                  Ancora sconosciute
                  la coscienza e l'ombra.
                  Si tendeva una mano
                  a cogliere una pietra,
                  una nube, un fiore,
                  un'ala.
                  E si raggiungeva tutto,
                  perché era prima
                  delle distanze.
                  Non sospettava il tempo
                  di essere il tempo.
                  Ci veniva accanto
                  sottomesso ed elastico.
                  Per vivere lentamente,
                  in fretta, gli dicevamo:
                  "fermati" o "mettiti a correre".
                  Per vivere, vivere
                  soltanto, tu gli dicevi:
                  "vattene".
                  E allora ci lasciava
                  eterei a galleggiare
                  nel puro vivere
                  senza successione,
                  salvati da motivi,
                  da origini, da albe.
                  Né volgere la testa
                  né guardare lontano
                  abbiamo saputo quel giorno
                  tu ed io. Non ne avevamo
                  bisogno. Baciarci, sì.
                  Ma con labbra così remote
                  dalla loro causa,
                  che inauguravano tutto,
                  bacio, amore, baciandosi,
                  senza dover chiedere perdono
                  a nessuno, a nulla.
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                    Sperdutamente

                    Sperdutamente amanti, per il mondo, amare! Che confusione senza pari! Quanti errori! Baciare volti invece di maschere amate. Universo in equivoci: minerali in fiore, che vogano nel cielo, sirene e coralli sulle nevi perenni, e nel fondo del mare, costellazioni ormai stanche, transfughe dalla gran notte orfana dove muoiono i palombari. Noi due. Che smarrimento! Questa strada, l'altra, quella? Le carte, false, scombussolando le rotte, giocano a farci smarrire, fra rischi senza faro. I giorni ed i baci sono in errore: non hanno termine dove dicono. Ma per amare dobbiamo imbarcarci su tutti i progetti che passano, senza chiedere nulla, pieni, pieni di fede nell'errore di ieri, di oggi, di domani, che non può mancare. Dell'allegria purissima di sbagliare e trovarci sulle soglie, sui margini tremuli di vittoria, senza voglia di vincere. Con il giubilo unico di vivere una vita innocente tra errori, e che non vuole altro che essere, amare, amarsi nell'immensa altezza di un amore che si ama ormai con tanto distacco da tutto ciò che non è lui, che si muove ormai al di sopra di trionfi o di sconfitte, ebbro nella pura gloria della sua certezza.
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