Scritta da: Silvana Stremiz

Elena (1848)

Ti vidi una volta, una sola volta –anni fa:
non voglio dir quanti – non molti, tuttavia.
Era notte, di Luglio; e dalla grande luna piena
che, come la tua anima, ricercava, elevandosi,
un suo erto sentiero per l'arco del cielo,
piovve un serico argenteo velo di luce,
con sé recando requie, grave afa e sopore,
sui sollevati visi d'almeno mille rose
che s'affollavano in un incantato giardino,
che nessun vento – se non in punta di piedi – osava agitare.
E cadde su quei visi di rose levati al cielo,
che in cambio restituirono, per l'amorosa luce,
le loro anime stesse odorose, in estatica morte.
Cadde su quei visi di rose levati al cielo,
che sorridendo morirono, in quel chiuso giardino,
da te incantati, da quella poesia che tu eri.
In bianca veste, sopra una sponda di viole,
ti vidi reclina, mentre che quella luce lunare
cadeva sui visi sollevati delle rose,
e sul tuo, sul tuo viso –ahimé, dolente!
Non fu il Destino che, in quella notte di Luglio,
non fu forse il Destino ( e Dolore è l'altro suo nome)
che m'arrestò, davanti a quel giardino,
a respirar l'incenso di quelle rose addormentate?
Non un passo nel silenzio: dormiva l'odiato mondo,
tranne io e te. M'arrestai, guardai
e ogni cosa in un attimo disparve
(Oh, ricorda ch'era un magico giardino! )
Si spense il perlaceo lume della luna:
non più vidi sponde muscose, tortuosi sentieri,
i lieti fiori e gli alberi gementi;
e moriva quel profumo stesso delle rose
tra le braccia dell'aria innamorata.
Tutto svaniva fuor che tu sola – una parte anzi di te:
fuor che quella divina luce nei tuoi occhi-
fuor che la tua anima nei tuoi occhi alzati al cielo.
Quelli io vedevo e non altro – l'intero mondo per me.
Quelli io vedevo e non altro – e così per molte ore-
quelli solo io vedevo – finché la luna non tramontò.
Quali selvagge storie del cuore erano inscritte
in quelle celestiali sfere di cristallo!
Quale fosco dolore! E sublime speranza!
Quale tacito e pacato mare d'orgoglio!
Quale audace ambizione! E che profonda-
insondabile capacità d'amore!
Ma disparve infine Diana alla mia vista,
velata in un giaciglio di scure nuvole a ponente;
e tu – uno spettro – tra i sepolcrali alberi
ti dileguasti. Solo i tuoi occhi rimasero.
Essi non vollero andar via – mai più disparvero.
Quella notte illuminando il mio solingo cammino,
non più mi lasciarono (come invece, ahimé,
le speranze! ). Ovunque mi seguono, mi guidano
negli anni. Sono i miei ministri – ma io il loro schiavo.
Loro compito è d'illuminarmi, d'infiammarmi,
e mio dovere è d'esser salvato da quella luce,
in quel loro elettrico fuoco purificato,
in quel loro elisio fuoco santificato.
Mi colmano l'anima di beltà, di speranza –
su nel cielo – le stelle a cui mi prostro
nelle tristi, mute veglie delle mie notti;
e nel meridiano splendore el giorno
ancora io le vedo – due fulgenti e dolci
Veneri, che il sole non può oscurare.

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