Il cipresso
E fu Giuseppe per quarant'anni ed oltre
a far'inchini e salutar dappresso
finché trovossi un dì su stessa coltre *
accanto colui che prima era cipresso.
Parve, indi, con stupore immenso
d'avere inchino da sì alto fusto;
anchilosato fu, disse: Che penso?
No! Cervello mio: Sei vecchio e guasto.
E chiusi gli occhi, ch'era stanco assai,
la destra penzoloni giù dal letto
s'assopì pian pianino pensando ai guai
ed alla vision ch'oggi fu oggetto.
Così restossi: Tempo quanto nol seppe
ma parvegli poi da tocco essere scosso
mentre affettuosamente: Che fai o Peppe?
Sentì stanco quel dire, quanto commosso.
Per i suoi vitrei, da peso oppressi occhi
forza non ebbe di guardar chi fosse,
chi a voce lo chiamava e piccoli tocchi
e debolmente pensava chi esser potesse.
Fu il dì di poi, a mattino andato
che disteso a letto a lui di presso
scorge vetust'uomo, volto emaciato
che credere stenta ch'esser sia lo stesso
che per tant'anni ebbe ad inchinarsi.
Quello lo guarda e stancamente dice:
Ho, qui, nel petto di dolor dei morsi,
stanco mi sento e d'essere infelice.
Io non pensavo mai, Vossignoria,
un giorno di trovarmi accanto a Voi,
quest'oggi il cuore mio è in allegria
ch'ha la fortuna d'essere con Voi.
Prim'io voglianza avevo di morire
che sempre fui più stanco e tribolato
sper'ora, invece, manco di guarire
ch'accanto Vossignoria sono appagato.
Certo! Tu allato sempre sei vissuto
e ancorché steso resti consolato.
Non me, però, da nobil stirpe nato
sempre diverso fui, e non reietto.
Vossignoria restate tale e quale
con l'arroganza nelle vostre vene
ma l'altezzosità più a nulla vale
perché acuisce solo le vostre pene.
Da parte mia vi dico: Io vi perdono
e mi prosterno a voi per quella gioia
che il cuore mio ha ricevuto in dono
d'avere accanto a sé vossignoria.
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