Che il bello e l'incantevole Siano solo un soffio e un brivido, che il magnifico entusiasmante amabile non duri: nube, fiore, bolla di sapone, fuoco d'artificio e riso di bambino, sguardo di donna nel vetro di uno specchio, e tante altre fantastiche cose, che esse appena scoperte svaniscano, solo il tempo di un momento solo un aroma, un respiro di vento, ahimè lo sappiamo con tristezza. E ciò che dura e resta fisso non ci è così intimamente caro: pietra preziosa con gelido fuoco, barra d'oro di pesante splendore; le stelle stesse, innumerabili, se ne stanno lontane e straniere, non somigliano a noi - effimeri-, non raggiungono il fondo dell'anima. No, il bello più profondo e degno dell'amore pare incline a corrompersi, è sempre vicino a morire, e la cosa più bella, le note musicali, che nel nascere già fuggono e trascorrono, sono solo soffi, correnti, fughe circondate d'aliti sommessi di tristezza perché nemmeno quanto dura un battito del cuore si lasciano costringere, tenere; nota dopo nota, appena battuta già svanisce e se ne va.
Così il nostro cuore è consacrato con fraterna fedeltà a tutto ciò che fugge e scorre, alla vita, non a ciò che è saldo e capace di durare. Presto ci stanca ciò che permane, rocce di un mondo di stelle e gioielli, noi anime-bolle-di-vento-e-sapone sospinte in eterno mutare. Spose di un tempo, senza durata, per cui la rugiada su un petalo di rosa, per cui un battito d'ali d'uccello il morire di un gioco di nuvole, scintillio di neve, arcobaleno, farfalla, già volati via, per cui lo squillare di una risata, che nel passare ci sfiora appena, può voler dire festa o portare dolore. Amiamo ciò che ci somiglia, e comprendiamo ciò che il vento ha scritto sulla sabbia.
Si chiama Amore ogni superiorità, ogni capacità di comprensione, ogni capacità di sorridere nel dolore. Amore per noi stessi e per il nostro destino, affettuosa adesione a ciò che l'Imperscrutabile vuole fare di noi anche quando non siamo ancora in grado di vederlo e di comprenderlo.
Ma la cosa migliore non furono quei baci e neppure le passeggiate serali, o i nostri segreti. La cosa migliore era la forza che quell'Amore mi dava, la forza lieta di vivere e di lottare per lei, di camminare sull'acqua e sul fuoco. Potersi buttare, per un istante, poter sacrificare degli anni per il sorriso di una donna: questa sì che è felicità, e io non l'ho perduta.
Sempre caro mi fu quest'ermo colle, e questa siepe, che da tanta parte dell'ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati spazi di là da quella, e sovrumani silenzi, e profondissima quiete io nel pensier mi fingo; ove per poco il cor non si spaura. E come il vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio a questa voce vo comparando: e mi sovvien l'eterno, e le morte stagioni, e la presente e viva, e il suon di lei. Così tra questa immensità s'annega il pensier mio: e il naufragar m'è dolce in questo mare.
Passata è la tempesta: Odo augelli far festa, e la gallina, Tornata in su la via, Che ripete il suo verso. Ecco il sereno Rompe là da ponente, alla montagna; Sgombrasi la campagna, E chiaro nella valle il fiume appare. Ogni cor si rallegra, in ogni lato Risorge il romorio Torna il lavoro usato. L'artigiano a mirar l'umido cielo, Con l'opra in man, cantando, Fassi in su l'uscio; a prova Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua Della novella piova; E l'erbaiuol rinnova Di sentiero in sentiero Il grido giornaliero. Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride Per li poggi e le ville. Apre i balconi, Apre terrazzi e logge la famiglia: E, dalla via corrente, odi lontano Tintinnio di sonagli; il carro stride Del passeggier che il suo cammin ripiglia. Si rallegra ogni core. Sì dolce, sì gradita Quand'è, com'or, la vita? Quando con tanto amore L'uomo à suoi studi intende? O torna all'opre? O cosa nova imprende? Quando dè mali suoi men si ricorda? Piacer figlio d'affanno; Gioia vana, ch'è frutto Del passato timore, onde si scosse E paventò la morte Chi la vita abborria; Onde in lungo tormento, Fredde, tacite, smorte, Sudàr le genti e palpitàr, vedendo Mossi alle nostre offese Folgori, nembi e vento. O natura cortese, Son questi i doni tuoi, Questi i diletti sono Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena È diletto fra noi. Pene tu spargi a larga mano; il duolo Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto Che per mostro e miracolo talvolta Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana Prole cara agli eterni! Assai felice Se respirar ti lice D'alcun dolor: beata Se te d'ogni dolor morte risana.
Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea Tornare ancor per uso a contemplarvi Sul paterno giardino scintillanti, E ragionar con voi dalle finestre Di questo albergo ove abitai fanciullo, E delle gioie mie vidi la fine. Quante immagini un tempo, e quante fole Creommi nel pensier l'aspetto vostro E delle luci a voi compagne! Allora Che, tacito, seduto in verde zolla, Delle sere io solea passar gran parte Mirando il cielo, ed ascoltando il canto Della rana rimota alla campagna! E la lucciola errava appo le siepi E in su l'aiuole, susurrando al vento I viali odorati, ed i cipressi Là nella selva; e sotto al patrio tetto Sonavan voci alterne, e le tranquille Opre dè servi. E che pensieri immensi, Che dolci sogni mi spirò la vista Di quel lontano mar, quei monti azzurri, Che di qua scopro, e che varcare un giorno Io mi pensava, arcani mondi, arcana Felicità fingendo al viver mio! Ignaro del mio fato, e quante volte Questa mia vita dolorosa e nuda Volentier con la morte avrei cangiato. Né mi diceva il cor che l'età verde Sarei dannato a consumare in questo Natio borgo selvaggio, intra una gente Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso Argomento di riso e di trastullo, Son dottrina e saper; che m'odia e fugge, Per invidia non già, che non mi tiene Maggior di sé, ma perché tale estima Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori A persona giammai non ne fo segno. Qui passo gli anni, abbandonato, occulto, Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza Tra lo stuol dè malevoli divengo: Qui di pietà mi spoglio e di virtudi, E sprezzator degli uomini mi rendo, Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola Il caro tempo giovanil; più caro Che la fama e l'allor, più che la pura Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo Senza un diletto, inutilmente, in questo Soggiorno disumano, intra gli affanni, O dell'arida vita unico fiore. Viene il vento recando il suon dell'ora Dalla torre del borgo. Era conforto Questo suon, mi rimembra, alle mie notti, Quando fanciullo, nella buia stanza, Per assidui terrori io vigilava, Sospirando il mattin. Qui non è cosa Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro Non torni, e un dolce rimembrar non sorga. Dolce per sé; ma con dolor sottentra Il pensier del presente, un van desio Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui. Quella loggia colà, volta agli estremi Raggi del dì; queste dipinte mura, Quei figurati armenti, e il Sol che nasce Su romita campagna, agli ozi miei Porser mille diletti allor che al fianco M'era, parlando, il mio possente errore Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche, Al chiaror delle nevi, intorno a queste Ampie finestre sibilando il vento, Rimbombaro i sollazzi e le festose Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno Mistero delle cose a noi si mostra Pien di dolcezza; indelibata, intera Il garzoncel, come inesperto amante, La sua vita ingannevole vagheggia, E celeste beltà fingendo ammira. O speranze, speranze; ameni inganni Della mia prima età! Sempre, parlando, Ritorno a voi; che per andar di tempo, Per variar d'affetti e di pensieri, Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo, Son la gloria e l'onor; diletti e beni Mero desio; non ha la vita un frutto, Inutile miseria. E sebben vòti Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro Il mio stato mortal, poco mi toglie La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta A voi ripenso, o mie speranze antiche, Ed a quel caro immaginar mio primo; Indi riguardo il viver mio sì vile E sì dolente, e che la morte è quello Che di cotanta speme oggi m'avanza; Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto Consolarmi non so del mio destino. E quando pur questa invocata morte Sarammi allato, e sarà giunto il fine Della sventura mia; quando la terra Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo Fuggirà l'avvenir; di voi per certo Risovverrammi; e quell'imago ancora Sospirar mi farà, farammi acerbo L'esser vissuto indarno, e la dolcezza Del dì fatal tempererà d'affanno. E già nel primo giovanil tumulto Di contenti, d'angosce e di desio, Morte chiamai più volte, e lungamente Mi sedetti colà su la fontana Pensoso di cessar dentro quell'acque La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, Piansi la bella giovanezza, e il fiore Dè miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso Sul conscio letto, dolorosamente Alla fioca lucerna poetando, Lamentai cò silenzi e con la notte Il fuggitivo spirto, ed a me stesso In sul languir cantai funereo canto. Chi rimembrar vi può senza sospiri, O primo entrar di giovinezza, o giorni Vezzosi, inenarrabili, allor quando Al rapito mortal primieramente Sorridon le donzelle; a gara intorno Ogni cosa sorride; invidia tace, Non desta ancora ovver benigna; e quasi (Inusitata maraviglia! ) il mondo La destra soccorrevole gli porge, Scusa gli errori suoi, festeggia il novo Suo venir nella vita, ed inchinando Mostra che per signor l'accolga e chiami? Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo Son dileguati. E qual mortale ignaro Di sventura esser può, se a lui già scorsa Quella vaga stagion, se il suo buon tempo, Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta? O Nerina! E di te forse non odo Questi luoghi parlar? Caduta forse Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita, Che qui sola di te la ricordanza Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede Questa Terra natal: quella finestra, Ond'eri usata favellarmi, ed onde Mesto riluce delle stelle il raggio, È deserta. Ove sei, che più non odo La tua voce sonar, siccome un giorno, Quando soleva ogni lontano accento Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri Il passar per la terra oggi è sortito, E l'abitar questi odorati colli. Ma rapida passasti; e come un sogno Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte La gioia ti splendea, splendea negli occhi Quel confidente immaginar, quel lume Di gioventù, quando spegneali il fato, E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna L'antico amor. Se a feste anco talvolta, Se a radunanze io movo, infra me stesso Dico: o Nerina, a radunanze, a feste Tu non ti acconci più, tu più non movi. Se torna maggio, e ramoscelli e suoni Van gli amanti recando alle fanciulle, Dico: Nerina mia, per te non torna Primavera giammai, non torna amore. Ogni giorno sereno, ogni fiorita Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento, Dico: Nerina or più non gode; i campi, L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno Sospiro mio: passasti: e fia compagna D'ogni mio vago immaginar, di tutti I miei teneri sensi, i tristi e cari Moti del cor, la rimembranza acerba.
Credevo che la facoltà d'amare fosse spenta nell'animo mio. Ora mi accorgo ch'ella vive ancora ed opera. Sono nato per amare, ho amato E forse con tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva.