Poesie preferite da Juliet3

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Scritta da: Eclissi

Scritto sulla sabbia

Che il bello e l'incantevole
Siano solo un soffio e un brivido,
che il magnifico entusiasmante
amabile non duri:
nube, fiore, bolla di sapone,
fuoco d'artificio e riso di bambino,
sguardo di donna nel vetro di uno specchio,
e tante altre fantastiche cose,
che esse appena scoperte svaniscano,
solo il tempo di un momento
solo un aroma, un respiro di vento,
ahimè lo sappiamo con tristezza.
E ciò che dura e resta fisso
non ci è così intimamente caro:
pietra preziosa con gelido fuoco,
barra d'oro di pesante splendore;
le stelle stesse, innumerabili,
se ne stanno lontane e straniere, non somigliano a noi
- effimeri-, non raggiungono il fondo dell'anima.
No, il bello più profondo e degno dell'amore
pare incline a corrompersi,
è sempre vicino a morire,
e la cosa più bella, le note musicali,
che nel nascere già fuggono e trascorrono,
sono solo soffi, correnti, fughe
circondate d'aliti sommessi di tristezza
perché nemmeno quanto dura un battito del cuore
si lasciano costringere, tenere;
nota dopo nota, appena battuta
già svanisce e se ne va.

Così il nostro cuore è consacrato
con fraterna fedeltà
a tutto ciò che fugge
e scorre,
alla vita,
non a ciò che è saldo e capace di durare.
Presto ci stanca ciò che permane,
rocce di un mondo di stelle e gioielli,
noi anime-bolle-di-vento-e-sapone
sospinte in eterno mutare.
Spose di un tempo, senza durata,
per cui la rugiada su un petalo di rosa,
per cui un battito d'ali d'uccello
il morire di un gioco di nuvole,
scintillio di neve, arcobaleno,
farfalla, già volati via,
per cui lo squillare di una risata,
che nel passare ci sfiora appena,
può voler dire festa o portare dolore.
Amiamo ciò che ci somiglia,
e comprendiamo
ciò che il vento ha scritto
sulla sabbia.
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    Scritta da: mor-joy

    Frammenti

    Ma la cosa migliore non furono quei baci
    e neppure le passeggiate serali, o i nostri segreti.
    La cosa migliore era la forza che quell'Amore mi dava,
    la forza lieta di vivere e di lottare per lei,
    di camminare sull'acqua e sul fuoco.
    Potersi buttare, per un istante,
    poter sacrificare degli anni
    per il sorriso di una donna:
    questa sì che è felicità, e io non l'ho perduta.
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      Scritta da: Silvana Stremiz

      L'Infinito

      Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
      e questa siepe, che da tanta parte
      dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
      Ma sedendo e mirando, interminati
      spazi di là da quella, e sovrumani
      silenzi, e profondissima quiete
      io nel pensier mi fingo; ove per poco
      il cor non si spaura. E come il vento
      odo stormir tra queste piante, io quello
      infinito silenzio a questa voce
      vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
      e le morte stagioni, e la presente
      e viva, e il suon di lei. Così tra questa
      immensità s'annega il pensier mio:
      e il naufragar m'è dolce in questo mare.
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        Scritta da: Silvana Stremiz

        La quiete dopo la tempesta

        Passata è la tempesta:
        Odo augelli far festa, e la gallina,
        Tornata in su la via,
        Che ripete il suo verso. Ecco il sereno
        Rompe là da ponente, alla montagna;
        Sgombrasi la campagna,
        E chiaro nella valle il fiume appare.
        Ogni cor si rallegra, in ogni lato
        Risorge il romorio
        Torna il lavoro usato.
        L'artigiano a mirar l'umido cielo,
        Con l'opra in man, cantando,
        Fassi in su l'uscio; a prova
        Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
        Della novella piova;
        E l'erbaiuol rinnova
        Di sentiero in sentiero
        Il grido giornaliero.
        Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
        Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
        Apre terrazzi e logge la famiglia:
        E, dalla via corrente, odi lontano
        Tintinnio di sonagli; il carro stride
        Del passeggier che il suo cammin ripiglia.
        Si rallegra ogni core.
        Sì dolce, sì gradita
        Quand'è, com'or, la vita?
        Quando con tanto amore
        L'uomo à suoi studi intende?
        O torna all'opre? O cosa nova imprende?
        Quando dè mali suoi men si ricorda?
        Piacer figlio d'affanno;
        Gioia vana, ch'è frutto
        Del passato timore, onde si scosse
        E paventò la morte
        Chi la vita abborria;
        Onde in lungo tormento,
        Fredde, tacite, smorte,
        Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
        Mossi alle nostre offese
        Folgori, nembi e vento.
        O natura cortese,
        Son questi i doni tuoi,
        Questi i diletti sono
        Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
        È diletto fra noi.
        Pene tu spargi a larga mano; il duolo
        Spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
        Che per mostro e miracolo talvolta
        Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
        Prole cara agli eterni! Assai felice
        Se respirar ti lice
        D'alcun dolor: beata
        Se te d'ogni dolor morte risana.
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          Scritta da: Silvana Stremiz

          Le ricordanze

          Vaghe stelle dell'Orsa, io non credea
          Tornare ancor per uso a contemplarvi
          Sul paterno giardino scintillanti,
          E ragionar con voi dalle finestre
          Di questo albergo ove abitai fanciullo,
          E delle gioie mie vidi la fine.
          Quante immagini un tempo, e quante fole
          Creommi nel pensier l'aspetto vostro
          E delle luci a voi compagne! Allora
          Che, tacito, seduto in verde zolla,
          Delle sere io solea passar gran parte
          Mirando il cielo, ed ascoltando il canto
          Della rana rimota alla campagna!
          E la lucciola errava appo le siepi
          E in su l'aiuole, susurrando al vento
          I viali odorati, ed i cipressi
          Là nella selva; e sotto al patrio tetto
          Sonavan voci alterne, e le tranquille
          Opre dè servi. E che pensieri immensi,
          Che dolci sogni mi spirò la vista
          Di quel lontano mar, quei monti azzurri,
          Che di qua scopro, e che varcare un giorno
          Io mi pensava, arcani mondi, arcana
          Felicità fingendo al viver mio!
          Ignaro del mio fato, e quante volte
          Questa mia vita dolorosa e nuda
          Volentier con la morte avrei cangiato.
          Né mi diceva il cor che l'età verde
          Sarei dannato a consumare in questo
          Natio borgo selvaggio, intra una gente
          Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
          Argomento di riso e di trastullo,
          Son dottrina e saper; che m'odia e fugge,
          Per invidia non già, che non mi tiene
          Maggior di sé, ma perché tale estima
          Ch'io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
          A persona giammai non ne fo segno.
          Qui passo gli anni, abbandonato, occulto,
          Senz'amor, senza vita; ed aspro a forza
          Tra lo stuol dè malevoli divengo:
          Qui di pietà mi spoglio e di virtudi,
          E sprezzator degli uomini mi rendo,
          Per la greggia ch'ho appresso: e intanto vola
          Il caro tempo giovanil; più caro
          Che la fama e l'allor, più che la pura
          Luce del giorno, e lo spirar: ti perdo
          Senza un diletto, inutilmente, in questo
          Soggiorno disumano, intra gli affanni,
          O dell'arida vita unico fiore.
          Viene il vento recando il suon dell'ora
          Dalla torre del borgo. Era conforto
          Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
          Quando fanciullo, nella buia stanza,
          Per assidui terrori io vigilava,
          Sospirando il mattin. Qui non è cosa
          Ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro
          Non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
          Dolce per sé; ma con dolor sottentra
          Il pensier del presente, un van desio
          Del passato, ancor tristo, e il dire: io fui.
          Quella loggia colà, volta agli estremi
          Raggi del dì; queste dipinte mura,
          Quei figurati armenti, e il Sol che nasce
          Su romita campagna, agli ozi miei
          Porser mille diletti allor che al fianco
          M'era, parlando, il mio possente errore
          Sempre, ov'io fossi. In queste sale antiche,
          Al chiaror delle nevi, intorno a queste
          Ampie finestre sibilando il vento,
          Rimbombaro i sollazzi e le festose
          Mie voci al tempo che l'acerbo, indegno
          Mistero delle cose a noi si mostra
          Pien di dolcezza; indelibata, intera
          Il garzoncel, come inesperto amante,
          La sua vita ingannevole vagheggia,
          E celeste beltà fingendo ammira.
          O speranze, speranze; ameni inganni
          Della mia prima età! Sempre, parlando,
          Ritorno a voi; che per andar di tempo,
          Per variar d'affetti e di pensieri,
          Obbliarvi non so. Fantasmi, intendo,
          Son la gloria e l'onor; diletti e beni
          Mero desio; non ha la vita un frutto,
          Inutile miseria. E sebben vòti
          Son gli anni miei, sebben deserto, oscuro
          Il mio stato mortal, poco mi toglie
          La fortuna, ben veggo. Ahi, ma qualvolta
          A voi ripenso, o mie speranze antiche,
          Ed a quel caro immaginar mio primo;
          Indi riguardo il viver mio sì vile
          E sì dolente, e che la morte è quello
          Che di cotanta speme oggi m'avanza;
          Sento serrarmi il cor, sento ch'al tutto
          Consolarmi non so del mio destino.
          E quando pur questa invocata morte
          Sarammi allato, e sarà giunto il fine
          Della sventura mia; quando la terra
          Mi fia straniera valle, e dal mio sguardo
          Fuggirà l'avvenir; di voi per certo
          Risovverrammi; e quell'imago ancora
          Sospirar mi farà, farammi acerbo
          L'esser vissuto indarno, e la dolcezza
          Del dì fatal tempererà d'affanno.
          E già nel primo giovanil tumulto
          Di contenti, d'angosce e di desio,
          Morte chiamai più volte, e lungamente
          Mi sedetti colà su la fontana
          Pensoso di cessar dentro quell'acque
          La speme e il dolor mio. Poscia, per cieco
          Malor, condotto della vita in forse,
          Piansi la bella giovanezza, e il fiore
          Dè miei poveri dì, che sì per tempo
          Cadeva: e spesso all'ore tarde, assiso
          Sul conscio letto, dolorosamente
          Alla fioca lucerna poetando,
          Lamentai cò silenzi e con la notte
          Il fuggitivo spirto, ed a me stesso
          In sul languir cantai funereo canto.
          Chi rimembrar vi può senza sospiri,
          O primo entrar di giovinezza, o giorni
          Vezzosi, inenarrabili, allor quando
          Al rapito mortal primieramente
          Sorridon le donzelle; a gara intorno
          Ogni cosa sorride; invidia tace,
          Non desta ancora ovver benigna; e quasi
          (Inusitata maraviglia! ) il mondo
          La destra soccorrevole gli porge,
          Scusa gli errori suoi, festeggia il novo
          Suo venir nella vita, ed inchinando
          Mostra che per signor l'accolga e chiami?
          Fugaci giorni! A somigliar d'un lampo
          Son dileguati. E qual mortale ignaro
          Di sventura esser può, se a lui già scorsa
          Quella vaga stagion, se il suo buon tempo,
          Se giovanezza, ahi giovanezza, è spenta?
          O Nerina! E di te forse non odo
          Questi luoghi parlar? Caduta forse
          Dal mio pensier sei tu? Dove sei gita,
          Che qui sola di te la ricordanza
          Trovo, dolcezza mia? Più non ti vede
          Questa Terra natal: quella finestra,
          Ond'eri usata favellarmi, ed onde
          Mesto riluce delle stelle il raggio,
          È deserta. Ove sei, che più non odo
          La tua voce sonar, siccome un giorno,
          Quando soleva ogni lontano accento
          Del labbro tuo, ch'a me giungesse, il volto
          Scolorarmi? Altro tempo. I giorni tuoi
          Furo, mio dolce amor. Passasti. Ad altri
          Il passar per la terra oggi è sortito,
          E l'abitar questi odorati colli.
          Ma rapida passasti; e come un sogno
          Fu la tua vita. Iva danzando; in fronte
          La gioia ti splendea, splendea negli occhi
          Quel confidente immaginar, quel lume
          Di gioventù, quando spegneali il fato,
          E giacevi. Ahi Nerina! In cor mi regna
          L'antico amor. Se a feste anco talvolta,
          Se a radunanze io movo, infra me stesso
          Dico: o Nerina, a radunanze, a feste
          Tu non ti acconci più, tu più non movi.
          Se torna maggio, e ramoscelli e suoni
          Van gli amanti recando alle fanciulle,
          Dico: Nerina mia, per te non torna
          Primavera giammai, non torna amore.
          Ogni giorno sereno, ogni fiorita
          Piaggia ch'io miro, ogni goder ch'io sento,
          Dico: Nerina or più non gode; i campi,
          L'aria non mira. Ahi tu passasti, eterno
          Sospiro mio: passasti: e fia compagna
          D'ogni mio vago immaginar, di tutti
          I miei teneri sensi, i tristi e cari
          Moti del cor, la rimembranza acerba.
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