Le migliori poesie inserite da Pierluigi Camilli


Scritta da: Pierluigi Camilli

Simile a un Dio

Simile a un Dio mi sembra quell'uomo
che siede davanti a te, e da vicino
ti ascolta mentre tu parli
con dolcezza
e con incanto sorridi. E questo
fa sobbalzare il mio cuore nel petto.
Se appena ti vedo, sùbito non posso
più parlare:
la lingua si spezza: un fuoco
leggero sotto la pelle mi corre:
nulla vedo con gli occhi e le orecchie
mi rombano:
un sudore freddo mi pervade: un tremore
tutta mi scuote: sono più verde
dell'erba; e poco lontana mi sento
dall'essere morta.
Ma tutto si può sopportare...
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    Scritta da: Pierluigi Camilli

    Gli umanitari

    Ecco il genio umanitario
    che del mondo stazionario
    unge le carrucole.
    Per finir la vecchia lite
    tra noi, bestie incivilite
    sempre un po' selvatiche,
    coll'idea d'essere Orfeo
    vuoi mestare in un cibreo
    l'universo e reliqua.
    Al ronzio di quella lira
    ci uniremo, gira gira,
    tutti in un gomitolo.
    Varietà d'usi e di clima
    le son fisime di prima;
    è mutata l'aria.
    I deserti, i monti, i mari,
    son confini da lunari,
    sogni di geografi.
    Col vapore e coi palloni troveremo gli scorcioni
    anco nelle nuvole;
    ogni tanto, se ci pare,
    scapperemo a desinare
    sotto, qui agli antipodi;
    e né gemini emisferi
    ci uniremo bianchi e neri:
    bene! Che bei posteri!
    Nascerà di cani e gatti
    una razza di mulatti
    proprio in corpo e in anima.
    La scacchiera d'Arlecchino
    sarà il nostro figurino,
    simbolo dell'indole.
    (Già per questo il Gran Sultano
    fé' la giubba al Mussulmano
    a coda di rondine!)
    Bel gabbione di fratelli!
    Di tirarci pè capelli
    smetteremo all'ultimo.
    Sarà inutile il cannone;
    rnorirem d'indigestione,
    anzi di nullaggine.
    La fiaccona generale
    per la storia universale
    farà molto comodo.
    Io non so se il regno umano
    deve aver Papa e Sovrano:
    ma se ci hanno a essere,
    Il Monarca sarà probo
    e discreto: un re del globo
    saprà star né limiti.
    Ed il capo della fede?
    Consoliamoci, si crede
    che sarà cattolico.

    Finirà, se Dio lo vuole,
    questa guerra di parole,
    guerra da pettegoli.
    Finirà: sarà parlata
    una lingua mescolata,
    tutta frasi aeree;
    e già già da certi tali
    nei poemi e nei giornali
    si comincia a scriverè.
    Il puntiglio discortese
    di tener dal suo paese,
    sparirà tra gli uomini.
    Lo chez-nous'd'un vagabondo
    vorrà dire: in questo mondo,
    non a casa al diavolo.
    Tu, gelosa ipocondria,
    che m'inchiodi a casa mia,
    escimi dal fegato;
    e tu pur chetati, o Musa,
    che mi secchi colla scusa
    dell'amor di patria.
    Son figliuol dell'universo,
    e mi sembra tempo perso
    scriver per l'Italia.
    Cari miei concittadini,
    non prendiamo per confini
    l'Alpi e la Sicilia.
    S'ha da star qui rattrappiti
    sul terren che ci ha nutriti?
    O che siamo cavoli?
    Qua e là nascere adesso,
    figuratevi, è lo stesso:
    io mi credo Tartaro.
    Perché far razza tra noi?
    Non è scrupolo da voi:
    abbracciamo i barbari!
    Un pensier cosmopolita
    ci moltiplichi la vita,
    e ci slarghi il cranio.
    Il cuor nostro accartocciato,
    nel sentirsi dilatato,
    cesserà di battere.
    Così sia: certe battute
    fanno male alla salute;
    ci è da dare in tisico.
    Su venite, io sto per uno;
    son di tutti e di nessuno;
    non mi vò confondere.
    Nella gran cittadinanza,
    picchia e mena, ho la speranza
    di veder le scimmie
    Sì sì, tutto un zibaldone:
    alla barba di Platone
    ecco la repubblica!
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      Scritta da: Pierluigi Camilli

      Lo Stivale

      Io non son della solita vacchetta,
      né sono uno stival da contadino;
      e se pajo tagliato coll'accetta,
      chi lavorò non era un ciabattino:
      mi fece a doppie suola e alla scudiera,
      e per servir da bosco e da riviera.

      Dalla coscia giù giù sino al tallone
      sempre all'umido sto senza marcire;
      son buono a caccia e per menar di sprone,
      e molti ciuchi ve lo posson dire:
      tacconato di solida impuntura,
      ho l'orlo in cima, e in mezzo la costura.

      Ma l'infilarmi poi non è sì facile,
      né portar mi potrebbe ogni arfasatto;
      anzi affatico e stroppio un piede gracile,
      e alla gamba dei più son disadatto;
      portarmi molto non poté nessuno,
      m'hanno sempre portato a un po' per uno.

      Io qui non vi farò la litania
      di quei che fur di me desiderosi;
      ma così qua e là per bizzarria
      ne citerò soltanto i più famosi,
      narrando come fui messo a soqquadro,
      e poi come passai di ladro in ladro.

      Parrà cosa incredibile: una volta,
      non so come, da me presi il galoppo,
      e corsi tutto il mondo a briglia sciolta;
      ma camminar volendo un poco troppo,
      l'equilibrio perduto, il proprio peso
      in terra mi portò lungo e disteso.

      Allora vi successe un parapiglia;
      e gente d'ogni risma e d'ogni conio
      pioveano di lontan le mille miglia,
      per consiglio d'un Prete o del Demonio:
      chi mi prese al gambale e chi alla fiocca,
      gridandosi tra lor: bazza a chi tocca.
      Volle il Prete, a dispetto della fede,
      calzarmi coll'ajuto e da sé solo;
      poi sentì che non fui fatto al suo piede,
      e allora qua e là mi dette a nolo:
      ora alle mani del primo occupante
      mi lascia, e per lo più fa da tirante.

      Tacca col Prete a picca e le calcagna
      volea piantarci un bravazzon tedesco,
      ma più volte scappare in Alemagna
      lo vidi sul caval di San Francesco:
      in seguito tornò; ci s'è spedato,
      ma tutto fin a qui non m'ha infilato.

      Per un secolo e più rimasto vuoto,
      cinsi la gamba a un semplice mercante;
      mi riunse costui, mi tenne in moto,
      e seco mi portò fino in Levante, -
      ruvido sì, ma non mancava un ette,
      e di chiodi ferrato e di bullette.

      Il mercante arricchì, credè decoro
      darmi un po' più di garbo e d'apparenza:
      ebbi lo sprone, ebbi la nappa d'oro,
      ma un tanto scapitai di consistenza;
      e gira gira, veggo in conclusione
      che le prime bullette eran più buone.

      In me non si vedea grinza né spacco,
      quando giù di ponente un birichino
      ea una galera mi saltò sul tacco,
      e si provò a ficcare anco il zampino;
      ma largo largo non vi stette mai,
      anzi un giorno a Palermo lo stroppiai.

      Fra gli altri dilettanti oltramontani,
      per infilarmi un certo re di picche
      ci si messe cò piedi e colle mani;
      ma poi rimase lì come berlicche,
      quando un cappon, geloso del pollajo,
      gli minacciò di fare il campanajo.

      Da bottega a compir la mia rovina
      saltò fuori in quel tempo, o giù di lì,
      un certo professor di medicina,
      che per camparmi sulla buccia, ordì
      una tela di cabale e d'inganni
      che fu tessuta poi per trecent'anni.

      Mi lisciò, mi coprì di bagattelle,
      e a forza d'ammollienti e d'impostura
      tanto raspò, che mi strappò la pelle;
      e chi dopo di lui mi prese in cura,
      mi concia tuttavia colla ricetta
      di quella scuola iniqua e maledetta.

      Ballottato così di mano in mano,
      da una fitta d'arpìe preso di mira,
      ebbi a soffrire un Gallo e un Catalano
      che si messero a fare a tira tira:
      alfin fu Don Chisciotte il fortunato,
      ma gli rimasi rotto e sbertucciato.

      Chi m'ha veduto in piede a lui, mi dice
      che lo Spagnolo mi portò malissimo:
      m'insafardò di morchia e di vernice,
      chiarissimo fui detto ed illustrissimo;
      ma di sottecche adoperò la lima,
      e mi lasciò più sbrendoli di prima.

      A mezza gamba, di color vermiglio,
      per segno di grandezza e per memoria,
      m'era rimasto solamente un Giglio:
      ma un Papa mulo, il Diavol l'abbia in gloria,
      ai Barbari lo diè, con questo patto
      di farne una corona a un suo mulatto.

      Da quel momento, ognuno in santa pace
      la lesina menando e la tanaglia,
      cascai dalla padella nella brace:
      vicerè, birri, e simile canaglia
      mi fecero angherie di nuova idea,
      et diviserunt vestimenta, mea.

      Così passato d'una in altra zampa
      d'animalacci zotici e sversati,
      venne a mancare in me la vecchia stampa
      di quei piedi diritti e ben piantati,
      cò quali, senza andar mai di traverso,
      il gran giro compiei dell'universo.

      Oh povero stivale! Ora confesso
      che m'ha gabbato questa matta idea:
      quand'era tempo d'andar da me stesso,
      colle gambe degli altri andar volea;
      ed oltre a ciò, la smania inopportuna
      di mutar piede per mutar fortuna.

      Lo sento e lo confesso; e nondimeno
      mi trovo così tutto in isconquasso,
      che par che sotto mi manchi il terreno
      se mi provo ogni tanto a fare un passo;
      ché a forza di lasciarmi malmenare,
      ho persa l'abitudine d'andare.

      Ma il più gran male me l'han fatto i Preti,
      razza maligna e senza discrezione;
      e l'ho con certi grulli di poeti,
      che in oggi si son dati al bacchettone:
      non c'è Cristo che tenga, i Decretali
      vietano ai Preti di portar stivali.

      E intanto eccomi qui roso e negletto,
      sbrancicato da tutti, e tutto mota;
      e qualche gamba da gran tempo aspetto
      che mi levi di grinze e che mi scuota;
      non tedesca, s'intende, né francese,
      ma una gamba vorrei del mio paese.

      Una già n'assaggiai d'un certo Sere,
      che se non mi faceva il vagabondo,
      in me potea vantar di possedere
      il più forte stival del Mappamondo:
      ah! Una nevata in quelle corse strambe
      a mezza strada gli gelò le gambe.

      Rifatto allora sulle vecchie forme
      e riportato allo scorticatojo,
      se fui di peso e di valore enorme,
      mi resta a mala pena il primo cuojo;
      e per tapparmi i buchi nuovi e vecchi
      ci vuol altro che spago e piantastecchi.

      La spesa è forte, e lunga è la fatica:
      bisogna ricucir brano per brano;
      ripulir le pillacchere; all'antica
      piantar chiodi e bullette, e poi pian piano
      ringambalar la polpa ed il tomajo:
      ma per pietà badate al calzolaio!

      E poi vedete un po': qua son turchino,
      là rosso e bianco, e quassù giallo e nero;
      insomma a toppe come un arlecchino;
      se volete rimettermi davvero,
      fatemi, con prudenza e con amore,
      tutto d'un pezzo e tutto d'un colore.

      Scavizzolate all'ultimo se v'è
      un uomo purché sia, fuorché poltrone;
      e se quando a costui mi trovo in piè,
      si figurasse qualche buon padrone
      di far con meco il solito mestiere,
      lo piglieremo a calci nel sedere.
      (Giuseppe Giusti)


      La chiosa di Pierluigi

      Seguendo il tuo consiglio l'hanno fatto:
      han provato per centosettant'anni
      a cercar di scoprire il piede adatto;
      con alti e bassi han fatto altri danni;
      ai Preti ora noi dobbiam sommare
      chi d'Oltremare ci viene a provare!

      E or caro Giuseppe, mio Maestro,
      hanno la gamba pensato di trovare:
      hanno creduto che col piede destro
      di nuovo lui potesse camminare!
      Il guaio è che nessuno ha mai badato
      per quale piede l'hanno fabbricato!
      (Pierluigi Camilli)
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        Scritta da: Pierluigi Camilli

        La mamma educatrice

        Viva Adelaide
        che il cuor m'infiamma,
        e in omnia secula,
        viva la mamma!
        Donna mirabile,
        donna famosa!
        È un capo d'opera
        è una gran cosa.
        Una domenica
        L'incontro in piazza,
        che aveva a latere
        la sua ragazza;
        mi ferma e, affabile
        come conviene,
        comincia al solito:
        - Che fa? Sta bene? -
        Ed alla figlia
        che stava zitta,
        gridò: - Su, animo!
        Che fai lì ritta?
        Su grulla, avvezzati,
        fa il tuo dovere... -
        Che mamma amabile!
        Non è un piacere?
        E poi, tenendomi
        le mani ai panni,
        soggiunse: - Oh, passano
        pur presto gli anni!
        L'ho vista nascere:
        eh, malannaggio!
        S'invecchia e termina
        l'erba di maggio!
        Eh, bimba andiamocene,
        stamane ho fretta:
        venga un po' a veglia,
        venga, s'aspetta!
        Siam gente povera,
        ma di buon cuore:
        ci fa una grazia,
        anzi un onore.
        Via bimba, pregalo!
        Stai lì impalata!
        Ma, santa Vergine!
        Sei pur sgarbata! -
        «È sempre giovane»
        dissi « aspettate,
        lasciate correre,
        non la sgridate:
        l'età, la pratica
        è molto: e poi,
        farà miracoli
        sotto di voi! »
        Ai panegirici
        non sempre avvezza,
        fece una smorfia
        di tenerezza
        la vecchia, e a battere
        sul primo invito
        tornò, dicendomi:
        - Dunque, ha capito;
        sa dove s'abita:
        verrà? - «Verrò. »
        E chi rispondere
        Potea di no?
        V'andai. Col giubilo,
        con quel sembiante
        che per le visite
        d'un zoccolante
        ho visto prendere
        dalle massaie,
        quando alla questua
        gira per l'aie,
        quelle, vedendomi,
        in un baleno
        precipitarono
        a pian terreno;
        poi risalirono
        con meco; ed ambe
        -Badi- gridavano
        -badi alle gambe.
        È poco pratico
        la scala è scura... -
        «Ma quanti incomodi!
        Quanta premura! »
        Salgo, si chiacchiera
        sul più, sul meno;
        mi dàn del discolo
        dal capo ameno.
        Tutta sollecita
        la mamma intanto
        scotea la seggiola,
        puliva un santo;
        da un certo armadio
        fra pochi stracci
        scioglieva in furia
        due canovacci;
        d'acqua in un angolo
        la brocca empiva:
        che mamma provvida!
        Che pulizia!
        Finite all'ultimo
        tante faccende,
        disse: - E per tavola
        cosa si prende?
        Credi Delaide,
        sono sgomenta! -
        e a me voltandosi
        diceva: - Senta,
        con tanti ninnoli
        ci va un tesoro:
        le voglie crescono,
        manca il lavoro.
        Oh, ripensandoci
        m'affogherei;
        almeno, càttera,
        felice lei... -
        Capii l'antifona,
        ed un testone
        le offersi a titolo
        di compassione.
        La vecchia ingenua
        per la sorpresa
        m'urtò col gomito,
        si finse offesa;
        ma per imprestito
        poi l'accettò,
        e per andarsene
        s'incamminò
        e nell'orecchio
        mi disse: -Ohè!
        Ritorno subito;
        badiamo, vhè! -
        Io per non ridere
        alzando il ciglio,
        risposi: «Diamine!
        Mi meraviglio! »
        Esce da camera,
        chiude la porta;
        sta fuori un secolo:
        che mamma accorta!
        Poi tosse e strascica
        prima d'entrare....
        Il ciel moltiplichi
        mamme sì rare!
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          Scritta da: Pierluigi Camilli

          Auguri de Natale

          Quist'anno vojo favve l'auguri
          'a na manera un po' particolare:
          e vojo, arminu semo più sicuri,
          falli pè tutti; prima in generale
          eppò, se me reggete finu a funnu,
          davveli a parte propiu unu a unu:
          a chi conoscio'ngiru p'eu munnu;
          a chi magna e chi stane a digiunu;
          a mojoma e fijumi pè prima;
          eppò ai parenti che voju ccettalli;
          a l'amici vicini, quilli in cima;
          a quilli de fojetta e de taralli;
          ai conoscendi de un'aru crima
          che non capiscio, ma pozzo usulalli!
          Un Bon Natale viru e spassionatu,
          senza gniciunu scòpo sicundariu,
          a tutti quilli che ho nominatu.
          Ma unu più sintitu e "passionariu"
          A chi tribbula e ha sempre tribbulatu;
          a chi pè rrivà a fine de giornata,
          ce rriva tuttu quantu sderenatu
          e fa fatica pè passà a nottata!
          A chi ce crede e prega u Bambinellu
          e porta'a croce già da picculittu;
          a chi'nce crede e sprescia u cerevellu
          pè capìne com'è che campà male
          e pè campane ha da fa a crucchittu!
          A tutti, propiu a tutti, bon natale!
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            Scritta da: Pierluigi Camilli

            Vorrei

            Vorrei
            come un tempo,
            scrivere poesie
            scorrevoli e dolci.
            Vorrei
            trovare le parole
            ma ho in testa un vespaio;
            la mia mente è uragano.
            Vorrei
            dire delle ingiustizie, delle brutture
            in un epoca come la nostra:
            dove tutto pare preciso;
            tutto giusto.
            Vorrei
            saper dire: "Sei per tre nove!",
            in quest'era di estrema precisione;
            di calcolo.
            Ma soprattutto vorrei poter dire:
            "Tieni, fratello, metà è tuo;
            l'altra metà è per me!"
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              Scritta da: Pierluigi Camilli

              'A liva

              Appena potata
              è tutta schilitrita:
              tutta spojata,
              tutta rinzicchita!
              Se 'a liva è vecchia,
              pare che te' 'a panza,
              pare che è canerchia,
              da 'na certa distanza.
              Ma lassa che a ninfa  je rescorre
              lappe i ramitti e drento a che branca,
              allora 'a senti quaci de discorre
              cou ventu che a contorce e che 'a sfianca.
              E 'a tecchia che a l'oju già precorre,
              a Maggiu 'a terra fa diventà bianca!
              I rami renfronnati,
              recropu 'e macagne;
              i vachi già 'ngrossati,
              te fau penzà 'e montagne
              de liva cota e pronta
              pe' esse macenata,
              e pure a 'nna conta,
              sennó va sprecata.
              E quanno l'oju casca trento 'a latta,
              te pare da vedé l'oro che fila!
              'Na  cósa che co' gnente se baratta!
              Eppó, se senti che 'nganna  te ppila,
              allora 'a gradasione è quell'adatta
              pe' esse 'i primi de 'na grossa pila!
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                Scritta da: Pierluigi Camilli

                La Morte parallela

                La Morte, ha detto un artista,
                è'na livella!
                Bensì sia vero, rattrista
                quanno la tua rotella,
                se ferma all'indice esatto,
                ch'hai sempre pensato, distratto,
                d'avecce più tempo, più giri...
                E quanno te tócca sospiri!
                L'unica consolazione,
                si come me più nun sai
                sfogatte cò'n'orazzione,
                che tanto nun ferma li guai,
                te metti a penzà a la sequela
                che Morte ci sta parallela:
                cioè questa mort'è posticcia
                e doppo un po' d'anni,
                se sa s'ariciccia.
                Così s'arimore de novo
                da Morte e rifai er turnovo!
                Er tempo che tu sei stato
                già morto,
                te serve d'apprendistato
                pè quanno sarai risorto!
                Ma nun crede a na cosa leggera:
                stavorta le cosa è severa!
                Sia chiaro che quanno risorti
                nun sei lo stesso:
                dipenne da quello che porti
                e potresti rinasce più fesso!
                Purtroppo a me è capitato
                e rifaccio er futuro ar passato!
                Pè questo stò in disappunto
                quanno m'aritócca:
                già so du vorte che spunto
                senza cambià filastrocca.
                Stavolta, perciò, quann'ariva
                sarà la definitiva!
                Ah, 'mbè! Me so scordato
                de spiegamme:
                chi è ricicciato ddù vorte,
                nun po' più annà tanto lemme
                e devecambià certe svorte
                sinnò è ormai condannato:
                la prima a lo Stato hai rubato,
                invece la seconna
                chi lavora sempre hai sfuttato;
                la terza più feconna
                de fa politica hai penzato
                sei stato furbo e te sei sarvato!
                Ecco perché certa gente
                cambianno la faccia
                continua a fa impunemente
                sempre la stessa focaccia:
                perch'è furba e inteliggente
                e campa continuamente!

                Pierluigi Camilli.
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                  Scritta da: Pierluigi Camilli

                  Da sempre

                  Dice ched'è, ma ch'è successo mai,
                  che oggigiorno stamo sempre in guera?
                  Come sarà, che mo' tutti ‘sti guai
                  stanno a sortì sopra ‘sta pôra tera?
                  Li cataclisma, la droga, l'aggresioni,
                  stupri, le truffe co' li  ladrocini;
                  in più, ce vonno toje le pensioni,
                  sinno' restamo dietro ai pariggini!
                  Eh, caro Peppe!, ciai memoria corta!
                  Sti fatti che lamenti so' successi
                  puro ne' l'era ch'oramai è morta!
                  Solo che allora ereno permessi
                  sortanto a pochi e solo for de porta;
                  e l'antri tutti zitti e sottomessi!
                  Prima nun le sapevi l'avventure;
                  nun lo sapevi quanno le mazzate
                  scapocciaveno pôre creature;
                  nun sapevi de razze eliminate!
                  Quale telegiornale lo diceva,
                  ch'er crociato ch'annava in terrasanta
                  indo' passava se riconosceva?
                  Se trucidava già nell'anno ottanta!
                  L'omo, caro Peppe, è un gran casino:
                  da quanno è comparso su' la tera,
                  ha cominciato prima co' Caino;
                  poi s'è organizzato pe' la guera!
                  Ma ha pagato sempre er piccinino,
                  senza pensione e co' la galera!
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