Per anni mi sono convinta che mio padre non sapesse nulla di me, che non mi amasse, che non volesse amarmi come avrei voluto e nel modo in cui ne avrei avuto bisogno. Ho taciuto le mie confidenze lasciandolo accuratamente fuori dalla mia vita privata. Sono partita, lontana. Pian piano mi sono accorta di quanto mi fossi sbagliata a pensare che fossimo così distanti. Ho capito che era troppo l'amore che ci legava per impedire che ci allontanassimo. Troppo amore, mal gestito, incompreso, sprecato a pensare di chi fosse la ragione. Come cercare di far confluire l'acqua di due bicchieri pieni in un bicchiere solo. Non c'è speranza per un amore così complesso, si deve decidere come contenerlo. Goccia a goccia, come le telefonate. Poche parole, mai troppe per non rimanere travolti dal fiume di parole che entrambi vorremmo dirci. Qualche risata o battuta, sempre per smorzare una tensione costante che in realtà non ha senso di esistere. È quando sento questa tensione, che torno a quella fase adolescenziale in cui penso che in fondo non sappia di cosa parlare, che non abbiamo argomenti, che non mi conosca, che non riconosca le sfumature della mia voce. Che non si accorga se sto bene o se sto male e che rifiuti di credere che possa aver sofferto a causa sua, in passato. Sono così convinta che non mi capisca, che rimango di sasso quando mi chiede teneramente: "Ma come stai? Sei diversa da un po' di tempo. Non mi parli più di nulla." Grazie papà.
Composto giovedì 28 febbraio 2013
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