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Metto in fila i pensieri in strutture rigide, inseguendo la maniacalità che mi è consueta, l'ansia del perfetto dentro all'imperfetto immodificabile e ne vien fuori la baraonda di sempre, quando le parole patiscono appese al nervosismo d'un caffè che presto si raffredderà sulla pila di emozioni disturbate.
Senza la pretesa di renderle piacevoli o comprensibili, s'intende.
Dono parole. Si trovano incise sulla copertina semi-rigida della voce strozzata e, stavolta, abbandonano lemmi e strutture grafiche per dipingere e scolpire dove si può, se si può, per dare angoli di visuale sui miei fatti interiori e le cose sui fatti, messe tutte l'una sull'altra, a partire dalla mancanza per arrivare alla rabbia, passando per lo sbocconcellare della noia, gli occhi sbarrati della paura e l'intolleranza che si applica un po' troppo per i miei gusti.
Apro porta di casa mia. La si riconoscerà subito, sebbene io sia sempre poco precisa nel fornire l'indirizzo giusto: ha il prospetto rustico della poca cura per la manutenzione, il tetto spiovente con le tegole rosse come quelli descritti nelle favole bambine che mi leggeva mia madre e le grondaie rotte dall'ultima pioggia - dico sempre che sia stata l'ultima - ma chissà perché, chissà per come,... [segue »]
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