Poeta, Premio Nobel per la Letteratura nel 1995, nato giovedì 13 aprile 1939 a Castledawson (Regno Unito), morto venerdì 30 agosto 2013 a Dublino (Irlanda)
Capovolgi il fusto e quello che succede è una musica che non avresti sperato mai d'udire. Lungo il secco stelo di cactus scorrono
acquazzoni, cascate, rovesci, risacche. Ti lasci attraversare come un condotto d'acqua, poi lo scuoti di nuovo leggermente
ed ecco un diminuendo che corre per le sue scale come una grondaia gemente. Di seguito, uno spruzzo di stille da foglie irrorate,
sottile umidità d'erba e margherite; poi mille luccichii come soffi di brezza. Capovolgi ancora il bastone. Quel che succede
non è sminuito dall'essere accaduto una volta, due, dieci, mille volte prima. Che importa se tutta la musica che traspare
è un cadere di pietriccio e semi secchi lungo un fusto di cactus! Sei come l'uomo ricco accolto in paradiso attraverso il timpano di una goccia di pioggia. E adesso riascolta.
Sento la tensione del capestro alla sua nuca, il vento contro il petto nudo. Rende i suoi capezzoli perle d'ambra, scuote la fragile struttura delle sue costole.
Vedo il suo corpo annegato nella palude, la pesante pietra, i rametti e i fuscelli galleggianti, sotto cui dapprima era un arboscello scortecciato estratto dalla melma – ossa di quercia, cervello a barilotto, la testa rasata simile a stoppia di granturco, gli occhi bendati da un lino lercio, il cappio un anello per cingere le memorie dell'amore.
Piccola adultera, prima che ti punissero avevi capelli biondi come l'oro, eri denutrita e la tua faccia imbrattata di pece era bellissima.
Mia povera vittima, quasi ti amo, ma avrei scagliato, lo so, la pietra del silenzio. Io sono l'abile voyeur delle onde scurite ed esposte del tuo cervello, del tessuto ritorto dei tuoi muscoli e di tutte le tue ossa numerate,
io che ristetti ammutolito quando le tue sorelle traditrici imbrattate di pece piansero presso il cancello, io che sarei stato complice dell'oltraggio civilizzato, capisco tuttavia l'esatta, tribale ed intima vendetta.
Tra il mio pollice e l'indice sta la comoda penna, salda come una rivoltella. Sotto la finestra, un suono chiaro e graffiante all'affondare della vanga nel terreno ghiaioso: è mio padre che scava. Guardo dabbasso finché la sua schiena piegata tra le aiuole non si china e si rialza come vent'anni fa ritmicamente tra i solchi di patate dove andava scavando.
Con lo stivale tozzo accoccolato sulla staffa, il manico contro l'interno del ginocchio sollevato con fermezza, sradicava alte cime e affondava la lama splendente per dissotterrare le patate novelle che noi raccoglievamo amandone tra le mani la fresca durezza. Il mio vecchio potrebbe impugnare una vanga presso Dio, proprio come il suo vecchio.
Mio nonno estraeva più torba in un giorno di qualsiasi altro uomo su, alla palude Toner. Una volta gli portai del latte in una bottiglia turata alla meglio con un pezzo di carta. Si raddrizzò e lo bevve, poi subito riprese a lavorare intaccando e dividendo, mentre con piote sulle spalle andava sempre più a fondo in cerca di buona torba. Scavando.
L'odore freddo dei solchi di patate, il tonfo e lo schiaffo dell'umida torba, i tagli netti di una lama tra le radici vive si destano nella mia memoria. Ma non ho una vanga per succedere a uomini come loro. Tra il mio pollice e l'indice sta comoda la penna. Scaverò con quella.