Era d'altronde uno che amava assistere alla propria vita, ritenendo impropria qualsiasi ambizione a viverla.
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Era d'altronde uno che amava assistere alla propria vita, ritenendo impropria qualsiasi ambizione a viverla.
La Commessa che si chiamava Monique Bray si offrì di accompagnare Horeau a casa. Lui, meccanicamente, accettò. Uscirono insieme dal negozio. Non lo sapevano, ma stavano, simultaneamente, entrando in otto anni di tragedie, strazianti felicità, ripicche crudeli, pazienti vendette, silenti disperazioni. Insomma, stavano per fidanzarsi.
Stava lì, come una candela accesa in un granaio che brucia.
Ridevano. Ma la verità è che erano giovani, e i giovani hanno un'idea vecchia della guerra. Onore, bellezza, eroismo. Come il duello tra Ettore e Aiace: i due principi che prima cercano ferocemente di uccidersi e poi si scambiano doni. Io ero troppo vecchio per credere ancora in quelle cose. Quella guerra la vincemmo con un cavallo di legno, immane, riempito di soldati. La vincemmo con l'inganno, non con la lotta a viso aperto, leale, cavalleresca. E questo a loro, ai giovani, non piacque mai. Ma io ero vecchio. Ulisse era vecchio. Noi sapevamo che vecchia era la lunga guerra che stavamo combattendo, e che un giorno l'avrebbe vinta chi sarebbe stato capace di combatterla in un modo nuovo.
Una strada dentro, ce l'hanno tutti, cosa che facilita, per lo più, l'incombenza di questo viaggio nostro, e solo raramente, la complica. Adesso è uno di quei momenti che la complica.
Volendo riassumere volendo, è quella strada, quella dentro, che si disfa, si è disfatta, benedetta, non c'è più. Succede. Credetemi. E non è una cosa piacevole.
Lui saprebbe inventarla una strada, qui, in mezzo a questo silenzio, in questa terra che non vuole parlare.
Trascorsero insieme settimane di piccola, intaccabile felicità.
Si incontreranno per tre volte, ma ogni volta sarà l'unica, e la prima, e l'ultima.
Da qualche parte, e in modo invisibile, le nostre famiglie infelici ci hanno passato un istinto irrimediabile a credere che la vita sia un'esperienza immensa. Tanto più modesta è stata qualsiasi consuetudine che ci hanno trasmesso, tanto più profondo è stato, ogni giorno, il loro richiamo sotterraneo a un'ambizione senza limiti – un'attesa di senso quasi irragionevole. Così ci siamo accostati al mondo, fin da bambini, con il preciso intento di restituirlo alla sua grandezza. Lo pretendiamo giusto, nobile, fermo nel tendere al meglio e inarrestabile nel suo cammino di creazione. Questo fa di noi dei ribelli, e dei diversi. Il mondo fuori ci appare per lo più un compito umiliante, arido, del tutto inadeguato alle nostre aspettative. Nelle vite di quelli che non credono vediamo la routine dei condannati, e in ogni loro singolo gesto scorgiamo la parodia dell'umanità che sogniamo. Qualsiasi ingiustizia è un'offesa alle nostre attese – lo è ogni dolore, malvagità, miseria d'animo, bruttura. Lo è qualsiasi passaggio a vuoto del senso – e ogni uomo senza speranza, o nobiltà. Ogni gesto meschino. Ogni istante perduto.
Crepita, la vita, brucia istanti feroci e negli occhi di chi passa anche solo a venti metri da lì non è che un'immagine come un'altra, senza suono e senza storia.