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Le mie difficoltà erano più gravi: era più forte di me riuscire a credere che Gesù fosse l'unico figlio di Dio incarnato e che solo a chi credeva in lui sarebbe spettata la vita eterna. Se Dio poteva avere figli, noi tutti eravamo suoi figli. Se Gesù era come Dio e era Dio stesso, allora tutti gli uomini erano come Dio e potevano essere Dio incarnato. La mia ragione non era pronta ad accettare letteralmente che Gesù con la sua morte e con il suo sangue aveva lavato i peccati del mondo, anche se metaforicamente vi poteva essere qualche cosa di vero.
Naturalmente ci fu chi ne provò invidia e si chiese come mai alcuni hanno tutte le fortune del mondo e non gli capita mai nulla di brutto-il loro denaro produce denaro, la loro buona sorte porta altra buona sorte, i loro cieli sono sempre azzurri e la loro vita è sempre dolce- ma quelli che invidieranno la felicità altrui esisteranno sempre e la cosa migliore da fare è ignorarli!
Il padiglione cancro era il numero tredici. Pàvel Nikolàeviĉ Rusànov non era mai stato superstizioso, né avrebbe potuto esserlo, ma ebbe un tuffo al cuore quando vide scritto "padiglione N. 13" sul suo foglio di ricovero. Possibile non avessero avuto abbastanza buon senso da dare quel numero al padiglione delle protesi o a quello di patologia intestinale? Ma era quella clinica, ormai, l'unico posto in tutta la repubblica, in cui si poteva fare qualcosa per lui.
Gli orari della vita dovrebbero prevedere un momento, un momento preciso della giornata, in cui ci si potrebbe impietosire sulla propria sorte. Un momento specifico. Un momento che non sia occupato né dal lavoro, né dal mangiare, né dalla digestione, un momento perfettamente libero, una spiaggia deserta in cui si potrebbe starsene tranquilli a misurare l'ampiezza del disastro. Con queste misure davanti agli occhi, la giornata sarebbe migliore, l'illusione bandita, il paesaggio chiaramente delineato. Ma se si pensa alla propria sventura tra due forchettate, con l'orizzonte ostruito dall'imminente ripresa del lavoro, si prendono delle cantonate, si valuta male, ci si immagina messi peggio di come si sta. Qualche volta, addirittura, ci si crede felici!
Poi mi ritrovo fuori, con il cane. Fuori per strada. [...] E cerco camminando (gioia ovunque, afferrata senza angoscia) e non trovo niente, fottuta letteratura di merda, realismo di ogni ordine, notte, orchi, fate corrotte! La gente si volta al passaggio dello svitato dalla testa ammaccata accompagnato dal cane che fa le linguacce. Ma anche loro, i passanti, non ne conoscono mica tante di storie che sian tutte rose e fiori! E se la ridono, con la risata carnivora dell'ignoranza, la risata feroce della pecora dai mille denti!
Quando mi ritrovo fuori, ho l'impressione di camminare scalzo sopra un tappeto di spilli. Mi ballano le palpebre, le mani mi tremano, batto i denti. [...] Il valium mi avvolge il corpo di nuvole, senza cambiare nulla allo stato dei nervi. Visto dall'esterno, semro in estasi, dentro invece friggo, come una bobina elettrica che non smette di bruciare.
Tu sei più importante di chiunque altro. E mi hai regalato te stesso. Questo è più di quanto io meriti, e ogni altra aggiunta da parte tua mi scombussola ancora di più.
- Non puoi saperlo. Non puoi sapere quanto tempo rimane. Non possiamo calcolarlo in mesi, giorni o ore. - Non preoccuparti, Mel. I miracoli non finiscono così. Non ti perderò mai. Non lo permetterò.