Mi ricordo di una nonnina ricurva e sempre sorridente. Era piccola di statura, sembrava una bambina. Non tendeva mai la mano per chiedere l'elemosina, ma si vedeva chiaramente che era segnata dalla sofferenza e dalle privazioni. Mi colpì molto e fu dura per me conquistare la sua fiducia, mi ci volle un bel po' di tempo, ma ci riuscii. Diventammo amici e si aprì a me, confidandomi tra le lacrime e i sorrisi che era stata sposata, non per suo volere, furono i suoi genitori a scegliere quell'uomo per lei. A metà del suo racconto, si incupì e capii immediatamente che c'era un dolore grande, una ferita ancora aperta. Era stata maltrattata, psicologicamente e fisicamente. Una violenza continua. Ero scossa e se ne accorse solo dopo avermi guardata negli occhi e con delicatezza asciugo le mie lacrime, che come fiumi in piena, avevano rotto gli argini del mio cuore. Sei una brava figliola mi disse, la testimone della mia storia. Cara donna: ci sono state delle volte nelle quali l'aggressione fisica era meno dolorosa, perché inginocchiata, mi facevo scudo con le braccia e mi sentivo come se fossi un feto, un esserino piccolo in pancia della sua mamma. Altre, che venivo investita da un treno in velocità, una furia disumana; schiaffi, calci e pugni. Ho subito in silenzio, per anni un uomo senza coscienza e senza umanità. La vita mi ha resa quel che sono oggi. Una donna anziana, che nulla ha da offrire, tranne il suo sapere quando invecchia. Furono le sue ultime parole. Non la vidi più. Se ne andò come aveva vissuto. In silenzio.
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