"Una sproporzione tremenda tra l'ambizioni e gl'esiti", "tram'assurda compres'un colpo di scena ancor più ridìcolo della premessa", "chiusura d'una trilogia su vita & morte nel rapporto genitore-figlio dopo 'Alla ricerca della felicità' e 'Sette Anime'", con Will Smith che s'autoproduce un film più mucciniano dello stesso Muccino, un'elaborazione del lutto "maneggiata con tale superficialità da rappresentare un’operazione che si squalifica da sé, così bramosa di strappare lacrim'e consensi" e "con morale natalizia che prevede la somma scoperta della «bellezza collaterale, il legame profondo con tutte le cose»", "classico film che si presta più alla raccolta d'aforismi da schiaffare s'un social a caso, alcuni smielati altri semplicemente sciocchi", "impianto scomodamente teatrale, sagra del dolore che si fa intrattenimento, col cast più blasonato ma peggio impiegato dell'anno", twist "deliranti, schizofrenici, paradossali e retorici". In casi come questo i recensori non indugian'ad accettar'il guanto della sfida col regista e lo sceneggiatore, un David Frankel e un Allan Loeb dalle filmografie orripilanti, e rivaleggiano a chi le spara più grosse. Stavolta direi ch'i "professional reviewers" abbiano stravinto, e di sicuro non è un complimento. Almeno Frankel un paio di punti a proprio favore ce li ha: ammette che su questioni esistenziali di portata simile abbiano fallito tutti, dagl'artisti alla scienza, dalle religioni a qualsiasi altra "cretinata intellettualoide" (certo: compresa la sua ch'oscilla fra Dickens e Capra), e "la pomposa pretesa di star viaggiando al di sopra della media delle riflessioni" che si limit'a un accenno, l'“Hegel Theater Company” chiamat'a incarnare le 3 Moire Cloto (l'amore), Lachesi (il tempo) e Atropo (la morte). Senonché ha fallito pur'Hegel, l'ha riconosciuto nel suo libro postumo "Lezioni sulla filosofia della storia". C'è chi continu'a cercar'e sperimentare, ma nel frattempo che si fa? Frankel offr'il suo contentino, e un banale palliativo è sempre meglio di niente.