Schnabel prov'a tradurre tensioni, inquietudini, difficoltà di van Gogh mediante l'uso della cinepresa, che dovrebbe farci vedere la realtà con gl'occhi del pittore così come lui la vedeva. L'inquadrature in soggettiva e in controluce, traballanti, sghembe, sfocate vogliono proiettarci dentro la vita dell'uomo e dell'artista. Ma è questo il vero van Gogh? La persona ch'emerge dai suoi scritti (diari e lettere) oppure dai suoi lavori (quadri, schizzi, ritratti)? Non c'è traccia del furibondo, ossessivo, delirante, vorticoso mulinare pittorico ed esistenziale che l'ha consegnato alla storia. Esso viene qui rimpiazzato da una propensione per una (cristologica*) estaticità che fors'è presente nelle sue riflessioni ma non nella sua arte. Ad aggravare il risultato, il film s'affida troppo alle parole, ricorrèndo spesso a lunghi pedanti dialoghi esplicativi.
*L'aggiunta dell'aspetto cristologico s'esplicita iniziando dalla conversazione di Dafoe con Mads Mikkelsen: quest'ultimo aveva già interpretato il ruolo di prete ne "Le mele di Adamo" (Jensen 2005), mentre Dafoe aveva già recitato nei panni del Nazareno sia con Scorsese ("L'ultima tentazione di Cristo", 1988) sia con Ferrara (nel metaforico "New Rose Hotel" del 1998).