Uscito martedì della scorsa settimana, “Anna” il nuovo romanzo di Niccolò Ammaniti è già un successo. L’attesa per questo libro era davvero tanta, in quanto lo scrittore non faceva uscire nulla dal 2010, anno di pubblicazione di “Io e Te”.
Il libro parla di ragazzi, tutti orfani, in una Sicilia del 2020 devastata da un virus chiamato “la Rossa” che ha ucciso tutti gli umani più grandi di 14 anni. In uno scenario di desolazione, dove i cadaveri degli adulti sono abbandonati nelle case, nei centri commerciali, nelle auto, per le strade, Anna deve riuscire a sopravvivere destreggiandosi tra branchi di cani randagi e bande spietate di ragazzini, pronti a qualsiasi cosa per un pezzo di pane o un sorso d’acqua.
Quando morirono i genitori Anna aveva 9 anni e suo fratello, Astor, 4. Un fratello che cercherà di proteggere in tutti i modi, fino a quando penserà di averlo perso per sempre e la porterà ad intraprendere un viaggio tra Palermo e Trapani alla sua ricerca. Sulle sue spalle uno zaino, dove al suo interno la protagonista conserva un quaderno lasciato da sua madre in cui sono riportate Le Cose Importanti: “Vi lascio in questo quaderno delle indicazioni che vi aiuteranno ad affrontare la vita e ad evitare i pericoli. Tenetelo con cura e ogni volta che vi verrà un dubbio apritelo e leggete”. Al suo fianco il cane Coccolone, un pastore maremmano inferocito, addestrato per uccidere, muovendosi sempre al limite tra la vita e la morte.
Alla fine del percorso quello che Anna capirà è che “la vita non ci appartiene, ci attraversa”. E, anche in un mondo così spaventoso, riuscirà a trovare un piccolo barlume di felicità.
Di seguito riportiamo un estratto del primo capitolo:
“Anna correva sull’autostrada stringendo le cinghie dello zaino che le rimbalzava sulla schiena. Ogni tanto girava la testa.
I cani erano ancora lí. Uno dietro l’altro in fila indiana. Sei, sette. Un paio piú malconci si erano persi per strada, ma quello grosso, davanti, si avvicinava.
Due ore prima li aveva scorti in fondo a un campo bruciato apparire e sparire tra le rocce scure e i tronchi anneriti degli ulivi, ma non ci aveva dato peso.
Le era già capitato di essere seguita da branchi di cani selvatici, ti venivano dietro per un po’, poi si stancavano e se ne andavano per i fatti loro.
Ma quando non li aveva visti piú aveva tirato un sospiro. Si era fermata a bere l’acqua che le restava e aveva ripreso a camminare.
Marciando le piaceva contare. Contava quanti passi ci volevano per fare un chilometro, contava le macchine blu e quelle rosse, contava i cavalcavia.
Poi i cani erano riapparsi.
Erano creature disperate, alla deriva in un mare di cenere. Ne aveva incontrati tanti, con i buchi nel pelo, i grappoli di zecche che gli pendevano dalle orecchie, le costole di fuori. Si sbranavano per i resti di un coniglio. Gli incendi dell’estate avevano bruciato la pianura e c’era rimasto poco o niente da mangiare.
Superò una fila di automobili con i vetri sfondati. Erbacce e grano crescevano intorno alle carcasse coperte da uno strato di cenere.
Lo scirocco aveva spinto le fiamme fino al mare e aveva lasciato dietro di sé un deserto. La striscia di asfalto dell’A29, che univa Palermo a Mazara del Vallo, tagliava in due una distesa morta da cui si sollevavano gli spunzoni anneriti delle palme e qualche pennacchio di fumo. A sinistra, oltre i resti di Castellammare del Golfo, uno spicchio di mare grigio si impastava con il cielo. A destra una fila di colline basse e scure galleggiavano sulla pianura come isole lontane.
La carreggiata era ostruita da un camion rovesciato. Il rimorchio aveva disintegrato lo spartitraffico e lavandini, bidè, gabinetti e schegge di ceramica bianca erano sparsi per decine di metri. La ragazzina ci passò in mezzo.
La caviglia destra le faceva male. Ad Alcamo aveva aperto a pedate la porta di un alimentari.”