Vieni, mio dolce amico: sulla bianca e soda strada noi seguiteremo finché tutta la valle s'inazzurri. Vieni: è tanto soave camminare a te d'accanto, anche se tu non m'ami. C'è tanto verde, intorno, tanto odore di timo c'è, e sono così ariose, nell'indorato cielo, le montagne: è quasi come se anche tu mi amassi. Arriveremo giù, fino a quel ponte sorretto dallo scroscio del torrente: là tu continuerai pel tuo cammino. Io resterò sul greto, fra i cespugli, dove l'acqua non giunge, fra le pietre chiare, rotonde, immote, come dorsi di una gregge accosciata. Col mio pianto vitreo, pari a lente che non pecca, io specchierò e raddoppierò le stelle.
Ti vorrei dare questa stella alpina. Guardala: è grande e morbida. Sul foglio, pare un'esangue mano abbandonata. Sbucata dalle crepe di una roccia, o sui ghiaioni, o al ciglio di una gola, là si sbiancava alla più pura luce. Prendila: è monda e intatta. Questo dono non può farti del male, perché il cuore oggi ha il colore delle genzianelle.
Guardami: sono nuda. Dall'inquieto languore della mia capigliatura alla tensione snella del mio piede, io sono tutta una magrezza acerba inguainata in un color avorio. Guarda: pallida è la carne mia. Si direbbe che il sangue non vi scorra. Rosso non ne traspare. Solo un languido palpito azzurro sfuma in mezzo al petto. Vedi come incavato ho il ventre. Incerta è la curva dei fianchi, ma i ginocchi e le caviglie e tutte le giunture, ho scarne e salde come un puro sangue. Oggi, m'inarco nuda, nel nitore del bagno bianco e m'inarcherò nuda domani sopra un letto, se qualcuno mi prenderà. E un giorno nuda, sola, stesa supina sotto troppa terra, starò, quando la morte avrà chiamato.
C'era un disordinato andirivieni di valige sfrangiate, penzoloni su ghette e scarpe gialle da provincia, che schizzavano dentro l'atrio grigio dagli sbadigli bianchi delle porte aperte sulla piazza e sui binari. Gli sportelli sbarravano sul muro uno stupore lucido, verdone; un ombrello, testardo, s'impuntava contro terra in un suo capriccio nero. Né tu né io ci guardavamo in viso: ma i miei occhi sentivan d'incontrarti. Dove, non so. Forse in quel po' di cielo che si vedeva sopra la tettoia o in mezzo alle fumate carnicine che il Vesuvio sbuffava senza posa e il vento senza posa smozzicava. Io mi sentivo libera e leggera come quei fiocchi bianchi di pelurie che si sprigionano dai pioppi, in maggio e cercan l'alto come delle preci. La tua voce era un mare di purezza: ogni ombra di materia vi affogava. A tratti le parole si frangevano in sfumature lunghe di silenzio e all'anima sembrava di vibrare nuda nel vento e di sfiorare Dio.
Io l'ho veduto, allora. Tu sonavi il tuo violino, con la testa bassa: le ciglia ti segnavano sul viso due strisce d'ombra. Io vibravo, forse, insieme con le corde, nei singhiozzi che l'anima imprimeva alla tua mano e t'incontravo al sommo delle dita. O forse ti giocavo sui capelli insieme con la brezza acre del mare. Forse m'illanguidivo nei racemi molli e compatti delle viole ciocche. E un giorno riponesti le tue musiche; riponesti, piangendo, il tuo strumento: la Morte te lo avea fasciato stretto coi suoi velluti neri. Io t'ho veduto, fratello, allora. Ma non so dov'ero. Forse ero solo un ramo crasso ed irto di fico d'India, dietro un vecchio muro.
No. Non si può salire: il vuoto enorme grava su noi, quella gran luce bianca arde e consuma l'anima. Non vedi come prone stanno le cime e come densi i pini nella valle precipitano? Non impeto d'ascesa sferza le vette ad assalir l'azzurro, ma paurosa immensità di cielo le respinge, le opprime. S'annidano, rattratti, nelle conche i nevai, disciogliendo sui nudi prati, fra gli abeti neri trecce argentee di rivi, come un canoro sospirar di pace verso il lago lontano. Restiamo presso il lago, anima cara; restiamo in questa pace. Guarda: il cielo, nell'acqua, è meno vasto, ma più mite, più vivo. Noi entreremo in questa vecchia barca tratta in secco sul lido: i remi sono infranti, ma giacendo sul fondo basso, non vedrem la terra e l'onda, percuotendolo da prora, darà al legno un alterno dondolio che fingerà l'andare. Salperemo così, da questi blandi pendii che odoran di ginepro: andremo con tutto il sole sovra il petto, il sole che riscalda e che nutre; andremo, lenti, in un bianco pio sogno di sconfinata pace, verso ignorate spiagge, col nostro amore solo.
Non monti, anime di monti sono queste pallide guglie, irrigidite in volontà d'ascesa. E noi strisciamo sull'ignota fermezza: a palmo a palmo, con l'arcuata tensione delle dita, con la piatta aderenza delle membra, guadagnammo la roccia; con la fame dei predatori, issiamo sulla pietra il nostro corpo molle; ebbri d'immenso, inalberiamo sopra l'irta vetta la nostra fragilità ardente. In basso, la roccia dura piange. Dalle nere, profonde crepe, cola un freddo pianto di gocce chiare: e subito sparisce sotto i massi franati. Ma, lì intorno, un azzurro fiorire di miosotidi tradisce l'umidore ed un remoto lamento s'ode, ch'è come il singhiozzo trattenuto, incessante, della terra.
Ho gridato di gioia, nel tramonto. Cercavo i ciclamini fra i rovai: ero salita ai piedi di una roccia gonfia e rugosa, rotta di cespugli. Sul prato crivellato di macigni, sul capo biondo delle margherite, sui miei capelli, sul mio collo nudo, dal cielo alto si sfaldava il vento. Ho gridato di gioia, nel discendere. Ho adorato la forza irta e selvaggia che fa le mie ginocchia avide al balzo; la forza ignota e vergine, che tende me come un arco nella corsa certa. Tutta la via sapeva di ciclami; i prati illanguidivano nell'ombra, frementi ancora di carezze d'oro. Lontano, in un triangolo di verde, il sole s'attardava. Avrei voluto scattare, in uno slancio, a quella luce; e sdraiarmi nel sole, e denudarmi, perché il morente dio s'abbeverasse del mio sangue. Poi restare, a notte, stesa nel prato, con le vene vuote: le stelle – a lapidare imbestialite la mia carne disseccata, morta.
Bambina, ho visto che stasera hai pianto, mentre la mamma tua sonava: pochi, per questo pianto, i tuoi quindici anni. So che forse noi siamo creature nate tutte da un'ansia eterna: il mare; e che la vita, quando fruga e strazia l'essere nostro, spreme dal profondo un po' del sale da cui fummo tratte. Ma non sono per te le salse lagrime. Lascia ch'io sola pianga, se qualcuno suona, in un canto, qualche nenia triste. La musica: una cosa fonda e trepida come una notte rorida di stelle, come l'anima sua. Lascia ch'io pianga. Perch'io non potrò mai avere – intendi? né le stelle, né lui.
Ascolta: come sono vicine le campane! Vedi: i pioppi, nel viale, si protendono per abbracciarne il suono. Ogni rintocco è una carezza fonda, un vellutato manto di pace, sceso dalla notte ad avvolger la casa e la mia vita. Ogni cosa, d'intorno, è grande e ombrosa come tutti i ricordi dell'infanzia. Dammi la mano: so quanto ha doluto, sotto i miei baci, la tua mano. Dammela. Questa sera non m'ardono le labbra. Camminiamo così: la strada è lunga. Leggo per un gran tratto nel futuro come sul foglio che mi sta dinnanzi: poi, la visione cade bruscamente nel buio dell'ignoto, come questa pagina bianca, che si rompe, netta, sul panno scuro della scrivania. Ma vieni: camminiamo: anche l'ignoto non mi spaventa, se ti son vicina. Tu mi fai buona e bianca come un bimbo che dice le preghiere e s'addormenta.