Erano ragazzi normali e intelligenti, mi direte, e quando uccisero la madre di lei si dimostrarono lucidi e spietati... Ora applaudite la condanna unendovi al coro degli ipocriti: volete esorcizzare il vostro male! Erano ragazzi normali e potevano essere figli vostri... e ciò v'inorridisce. Ma forse noi dovremmo avere un po' di pietà per loro.
Ora che cosa potrei dire a Erika se fossi suo padre: Oddio, dov'ero Erika, come potevo non accorgermi che in cuore ti ribolliva quell'assurda e orrenda gelosia; perché soltanto di gelosia si tratta, ne sono certo. È colpa mia, non tua, se non me ne sono accorto. Come potevi credere che il mio amore fosse poco e divisibile? Il mio amore, tu non lo sapevi, era più grande e illimitato e comprendeva te, la mamma e il fratellino. È colpa mia, non tua, se tu non lo hai capito.
O voi tutti che giudicate, siete buoni! Voi avete sempre amato vostra madre, ricordate. Quando era vecchia l'avete messa in un ospizio, quel più comodo, sulla strada percorsa nei weekend. Così potevate fermarvi un momentino, senza perder tempo: -Cara mamma, ti ho portato un regalino, una scatola di biscotti, quelli molli, che puoi mangiare anche tu, senza dentiera. Sei contenta? - E andate via.
Anche voi avete ucciso vostra madre e dovreste avere almeno un po' di pietà per voi.
Che senso ha coprirmi di attenzioni proprio ora che mi stai lasciando? E perché continui a cucinare che non abbiamo neanche voglia di mangiare?
Da dietro ti guardo di sfuggita mentre tu trambusti tra i fornelli, vedo il tuo collo bianco e il tuo codino e le tue gambe sottili di bambina; e il cuore mi si gonfia di tristezza.
Poi ti giri e nel tuo viso contratto leggo una dura ostinazione e da un puntino nero della pelle che non ti avevo mai notato prima sembra sprizzare fuori il tuo rancore. Non riesco a capire cosa ho fatto per suscitare un odio così forte.
Tuttavia mi prepari il caffelatte col pane raffermo, che a me piace, cosa che tu mai facevi prima; mi sembra un gesto pietoso come quando si offre un lauto pranzo al condannato prima di trascinarlo dal suo boia.
Che me ne importa a me del caffelatte se ora tu vuoi andare via? Che importa a me di lavorare, che m'importa dei soldi e della roba? Che m'importa di finire sotto un camion, che m'importa di cadere da un ponteggio, che m'importa di morire per un cancro se ora vuoi andare via? Non m'importa, non m'importa, non m'importa proprio niente.
Tornano le notti tiepide di aprile, o amore, e nuovamente la luna batte sul mio vaso di viole soavemente e su le irte siepi fiorite di rovo e biancospino. Lievi si dischiudono intanto, come rose tra spine, i nostri sogni d'amore, così come vedremo fiorire la felicità in una forse imminente primavera.
Si, nuovamente la luna si riflette nei torbidi miei occhi, si specchia nei pantani, e inutilmente vuoi strappare la gramigna dal mio cuore con le tue piccole mani. Ma se l'arido stelo dell'ortica che nasce fra le crepe della pietra tu vedi fiorire a primavera, anche la serpe si scioglie a lente spire dal letargo; e il mio cuore si gonfia come un rospo, perché l'innocenza è perduta e il bene non è che l'assenza del male.
come le scintille che dal legno che arde rapide sprizzano così le nostre vite per un attimo di odio e amore si accendono e svaniscono in un vortice di fumo
così pure gli infiniti universi durano un tempo effimero che a noi pare interminabile e irresistibilmente sono attratti in un orrido imbuto
oh tu, se esisti oltre lo spazio e il tempo e origini questo caos e contempli l'inutile dolore di ogni vita, la nascita e la morte, la pianta che germoglia e rinsecchisce, cessa, ti prego, il tuo gioco perverso e riducimi in polvere insensibile.
Da dove viene questa larva che s'insinua fra le tenere foglie dei castani amari e invisibile ne succhia la linfa e le lascia secche e attorcigliate, come in un precoce autunno? E questa pianta che morendo impazzisce, nei suoi rami bassi rigetta nuove foglie e alcuni grappoli di sterili fiori, quasi fosse ingannata dal pallido sole che non riscalda e tristemente prelude alle imminenti gelate dll'inverno.
Da dove viene questo amore così fuori stagione, che rinasce nel cuore di un vecchio solo e disilluso? È forse la paura della morte che mi fa scoppiare nella testa questa insana pazzia, perché nulla mi può ingannare, se ragiono. Oppure è il mio solito bisogno di invaghirmi di un sogno, ed ora mi sembra di amare questa donna che è così simile a lei, ma non è vero.
Il mandarino contenne la sua ira quando i sevitori tremanti riferirono che dalla gabbietta aperta il passerotto, che più di ogni cosa amava, era sparito. Egli salì sopra la torre e scrutando il cielo in lontananza vide l'uccellino che fuggiva e che, credendo di volare verso il sole, s'inoltrava fra le nubi di tempesta. Con terrore pensò al buio della notte popolato di orribili grifagni che fra poco avrebbe avvolto l'improvvido uccellino infreddolito. Allora fu grande il suo dolore.
Arrivarono da tutto il regno musici, buffoni e concubine e le stanze della reggia risuonavano di allegre musiche di danza. Ma più niente rallegrava il mandarino.
I mercanti portarono le sete più lievi fruscianti e colorate e le gemme preziose incastonate in splendidi gioielli. Ma più niente interessava al mandarino.
I maghi allora gli donarono pavoni finti costruiti con piume d'oro o di cristallo e con occhi di zaffiro o rubino e che dentro avevano un congegno che imitava il trillo di un uccello. Ma più niente ingannava il mandarino.
E i savi dottori che venivano con libri polverosi gli spiegavano che gli uccelli derivano dai rettili e che lui si era innamorato di un piccolo serpente con le piume. Ma più niente consolava il mandarino.
Tutti i giorni seguenti il mandarino saliva sulla torre alta e con un lungo cannocchiale scrutava il cielo fino all'orizzonte, incurante delle orde dei nemici che premevano oltre la muraglia. Sperava di vedere l'uccellino volare in lontananza; e il cielo era solcato dai voli dei terribili rapaci.
Oh se ti avessi dato una gabbietta con le stecche d'oro, oppure avessi costruito per te, nel mio giardino, con fili invisibili, un'aerea voliera. Ora ti poseresti felice fra i cespi delle rose e sopra i rami dei ciliegi in fiore. O forse bastava che io ti parlassi ogni mattina, e tu saresti qui sulla mia mano.
Ora attendo soltanto le orde dei nomadi nemici feroci tagliatori di teste che verranno dalle steppe immense, cavalcando diabolici destrieri; e scaleranno i bastioni di difesa e irromperanno nella fertile pianura incendiando i campi di riso e la mia reggia. Ma più nulla m'importa e io non temo l'infausto mio destino e la morte atroce che inesorabilmente, a lunghi passi, si avvicina.