Non un cenno del tuo assenso alla catastrofe zittita che si compie
solo lasci che accada quest'andare incontro al bordo sconnesso e smottato del dividerci
Adesso è l'occasione di negare che sia stata presunta e non provata la trama lanosa che avvolgeva il freddo il sorso alla brocca nell'estate notturna lo scorrere benigno del tedio assonnato
che sia stato il commosso dell'abbraccio soltanto e per poco una tregua all'esistere.
breve e rapido che parve il mimo delle ombre sul muro quando impazziscono le falene nelle case di campagna e i gechi si scagliano all'indietro arrotandosi nel vuoto
e sembrò il balzo della serpe nel traverso della sterrata al pedalare dell'uomo che arresta e storta la retta dell'andare
irripetuto improvviso somigliante al salto del pesce alato nella gobba dell'onda china al volo dell'arpione che nel verde dispare
la volta che i nostri occhi si scambiarono gli scudi nel repentino duello di un lampo.
Mi diletta l'intenzionale negligenza la solerte amnesia della cura di me
Più dell'usanza di lusingar se stessi mi par vezzo da Narciso languire al bocciolo maculato del dimenticarsi
l'abbracciare il doppione compatito il tristo mendicante di questue mai raccolte, d'oboli rimessi ai generosi
All'umana pietà chiedo peraltro che faccia come voglio: darmi niente e afferrare quel ch'è mio, ch'io possa urlare ai quattro venti quanto ostile m'è la vita e cattiva l'indole funesta
Così mi compiango e ne ho delizia e posso dir poeta di quell'altra che derido beffarda come se non fossi
Si ostinano irrimediabili le crepe sulla parete nuda Sul dorso del cancello un brecciato recidivo snobba tre strati di vernice verde
Dei quadri ammattonati mi par di vedere solo lì dove con metallico dispetto cadde la teiera grigia spargendo scuro sulla traccia incolore dell'intacco
Tra sussulti stizziti le suture della vena d'asfalto vanificano la colata nuova e l'inutile rimedio dell'uomo in arancione
Il cigolio del pomello non mi cura È nato già con lui quel suono acido di stoppia calpestata Né mi accorgo più del gocciolare sillabico sul rivolo della ceramica
Tutte le cose sono mortali
Si crespa la mano che le tocca annebbia l'occhio nel mirarle
E si diviene avvezzi alla linea precipitata e storta che trapassa l'intero che eravamo.
Acremente mi nuoce ogni sensatezza Da me dubito che delle cose perdute convenga aver memoria La sfera dondola, il pendolo si pente, l'ora ribatte la conferma al nostro doppio sogno senza sonno Rifuggiamo in due lungo opposti sterrati, sollevando nebulosi viali in uno scarto di sera troppo nera. Dimmi frasi scarne rapide che segnino dove deporre il mio furore.
Siedi e ricordami ti prego il giorno del primo nostro confonderci in correnti d'illusioni allucinate verissime linde come lenzuola all'afa del portico Avremmo sciolto ordalie strozzato spire nel cesto invocato vangeli a sigillo del vero mutato un rovo in parola per giurare fin alle pietre sepolte ch'era immortale
Darmi una parvenza. Annebbiare l'arrotarsi inesausto in un giro di specchi e lame curve quasi falci oscurate Credermi senz'occhi ossa e voce per la sola fiducia di destarmi all' ora della prima luce e avere possesso di quest'anima che ancor s'affida a un domani ch'ormai come rivolo è mancato, sperduto. E disparire.