Scrittore, poeta, drammaturgo, aviatore, politico e patriota, nato giovedì 12 marzo 1863 a Pescara (Italia), morto martedì 1 marzo 1938 a Gardone Riviera (Italia)
A mezzo il giorno sul Mare etrusco pallido verdicante come il dissepolto bronzo dagli ipogei, grava la bonaccia. Non bava di vento intorno alita. Non trema canna su la solitaria spiaggia aspra di rusco, di ginepri arsi. Non suona voce, se acolto. Riga di vele in panna verso Livorno biancica. Pel chiaro silenzio il Capo Corvo l'isola del Faro scorgo; e più lontane, forme d'aria nell'aria, l'isole del tuo sdegno, o padre Dante, la Capraia e la Gorgona. Marmorea corona di minaccevoli punte, le grandi Alpi Apuane regnano il regno amaro, dal loro orgoglio assunte.
La foce è come salso stagno. Del marin colore, per mezzo alle capanne, per entro alle reti che pendono dalla croce degli staggi, si tace. Come il bronzo sepolcrale pallida verdica in pace quella che sorridea. Quasi letèa, obliviosa, eguale, segno non mostra di corrente, non ruga d'aura. La fuga delle due rive si chiude come in un cerchio di canne, che circonscrive l'oblío silente; e le canne non han susurri. Più foschi i boschi di San Rossore fan di sé cupa chiostra; ma i più lontani, verso il Gombo, verso il Serchio, son quasi azzurri. Dormono i Monti Pisani coperti da inerti cumuli di vapore.
Bonaccia, calura, per ovunque silenzio. L'Estate si matura sul mio capo come un pomo che promesso mi sia, che cogliere io debba con la mia mano, che suggere io debba con le mie labbra solo. Perduta è ogni traccia dell'uomo. Voce non suona, se ascolto. Ogni duolo umano m'abbandona. Non ho più nome. E sento che il mio vólto s'indora dell'oro meridiano, e che la mia bionda barba riluce come la paglia marina; sento che il lido rigato con sì delicato lavoro dell'onda e dal vento è come il mio palato, è come il cavo della mia mano ove il tatto s'affina.
E la mia forza supina si stampa nell'arena, diffondesi nel mare; e il fiume è la mia vena, il monte è la mia fronte, la selva è la mia pube, la nube è il mio sudore. E io sono nel fiore della stiancia, nella scaglia della pina, nella bacca, del ginepro: io son nel fuco, nella paglia marina, in ogni cosa esigua, in ogni cosa immane, nella sabbia contigua, nelle vette lontane. Ardo, riluco. E non ho più nome. E l'alpi e l'isole e i golfi e i capi e i fari e i boschi e le foci ch'io nomai non han più l'usato nome che suona in labbra umane. Non ho più nome né sorte tra gli uomini; ma il mio nome è Meriggio. In tutto io vivo tacito come la Morte.
Voglio un amore doloroso, lento, che lento sia come una lenta morte, e senza fine (voglio che più forte sia de la morte) e senza mutamento.
Voglio che senza tregua in un tormento occulto sian le nostre anime assorte; e un mare sia presso a le nostre porte, solo che pianga in un silenzio intento.
Voglio che sia la torre alta granito, ed alta sia così che nel sereno sembri attingere il grande astro polare.
Voglio un letto di porpora, e trovare in quell'ombra giacendo su quel seno, come in fondo a un sepolcro l'Infinito.
Voglio che tornando tu trovi una paroletta del tuo amico stasera. Ho un desiderio desolato di te stasera. Ahimè stasera e sempre. Ma stasera il desiderio è di qualità nuova. È come un tremito infinitamente lungo e tenue. Sono come un mare in cui tremino tutte le gocciole, tremano tutte le ali dell'anima, tremano tutte le fibre dei nervi, tremano tutti i fiori della primavera e anche le nuvole del cielo e anche le stelle della notte e anche la piccola luna trema. Trema sui tuoi capelli che sono una schiuma bionda. Ho la bocca piena delle tue spalle, che sono ora come un fuoco di neve tiepida disciolta in me. Godo e soffro. Ti ho dentro di me e vorrei tuttavia sentirti sopra di me. Non mi hai lasciato tanta musica partendo. Stanotte tienimi sul tuo cuore, avvolgimi nel tuo sogno, incantami col tuo fiato, sii sola con me solo. Oh melodia melodia... Tremano tutte le gocciole del mare.
Nella cala tranquilla scintilla, intesto di scaglia come l'antica lorica del catafratto, il Mare. Sembra trascolorare. S'argenta? S'oscura? A un tratto come colpo dismaglia l'arme, la forza del vento l'intacca. Non dura. Nasce l'onda fiacca, sùbito s'ammorza. Il vento rinforza. Altra onda nasce, si perde, come agnello che pasce pel verde: un fiocco di spuma che balza! Ma il vento riviene, rincalza, ridonda. Altra onda s'alza, nel suo nascimento più lene che ventre virginale! Palpita, sale, si gonfia, s'incurva, s'alluma, propende. Il dorso ampio splende come cristallo; la cima leggiera s'arruffa come criniera nivea di cavallo. Il vento la scavezza. L'onda si spezza, precipita nel cavo del solco sonora; spumeggia, biancheggia, s'infiora, odora, travolge la cuora, trae l'alga e l'ulva; s'allunga, rotola, galoppa; intoppa in altra cui 'l vento diè tempra diversa; l'avversa, l'assalta, la sormonta, vi si mesce, s'accresce. Di spruzzi, di sprazzi, di fiocchi, d'iridi ferve nella risacca; par che di crisopazzi scintilli e di berilli viridi a sacca. O sua favella! Sciacqua, sciaborda, scroscia, schiocca, schianta, romba, ride, canta, accorda, discorda, tutte accoglie e fonde le dissonanze acute nelle sue volute profonde, libera e bella, numerosa e folle, possente e molle, creatura viva che gode del suo mistero fugace. E per la riva l'ode la sua sorella scalza dal passo leggero e dalle gambe lisce, Aretusa rapace che rapisce la frutta ond'ha colmo suo grembo. Sùbito le balza il cor, le raggia il viso d'oro. Lascia ella il lembo, s'inclina al richiamo canoro; e la selvaggia rapina, l'acerbo suo tesoro oblìa nella melode. E anch'ella si gode come l'onda, l'asciutta fura, quasi che tutta la freschezza marina a nembo entro le giunga!
Le mani delle donne che incontrammo una volta, e nel sogno, e ne la vita: oh quelle mani, Anima, quelle dita che stringemmo una volta, che sfiorammo con le labbra, e nel sogno, e ne la vita! Fredde talune, fredde come cose morte, di gelo (tutto era perduto): o tiepide, parean come un velluto che vivesse, parean come le rose: rose di qual giardino sconosciuto? Ci lasciaron talune una fragranza così tenace che per una intera notte avemmo nel cuore la primavera; e tanto auliva la soligna stanza che foresta d'april non più dolce era. Da altre, cui forse ardeva il fuoco estremo d'uno spirto (ove sei, piccola mano, intangibile ormai, che troppo piano strinsi? ), venne il rammarico supremo: - Tu che m'avesti amato, e non in vano! - Da altre venne il desìo, quel violento Fulmineo desio che ci percote come una sferza; e immaginammo ignote lussurie in un'alcova, un morir lento: - per quella bocca aver le vene vuote! - Altre (o le stesse) furono omicide: meravigliose nel tramar l'inganno. Tutti gli odor d'Arabia non potranno Addolcirle. - Bellissime e infide, quanti per voi baciare periranno! - Altre (o le stesse), mani alabastrine ma più possenti di qualunque spira, ci diedero un furor geloso, un'ira folle; e pensammo di mozzarle al fine. (Nel sogno sta la mutilata, e attira. Nel sogno immobilmente eretta vive l'atroce donna dalle mani mozze. E innanzi a lei rosseggiano due pozze di sangue, e le mani entro ancora vive sonvi, neppure d'una stilla sozze). Ma ben, pari a le mani di Maria, altre furono come le ostie sante. Brillò su l'anulare il diamante né gesti gravi della liturgia? E non mai tra i capelli d'un amante. Altre, quasi virili, che stringemmo forte e a lungo, da noi ogni paura fugarono, ogni passione oscura; e anelammo a la Gloria, e in noi vedemmo illuminarsi l'opera futura. Altre ancora ci diedero un profondo brivido, quello che non ha l'uguale. Noi sentimmo, così, che ne la frale palma chiuder potevano esse un mondo immenso, e tutto il Bene e tutto il Male: Anima, e tutto il Bene e tutto il Male.
Il sogno d'un passato lontano, d'una ignota stirpe, d'una remota favola nei Poeti luce. Ai Poeti oscuro è il sogno del futuro. Qual contro l'aure avverse una chioma divina, una fiamma divina, tal ne la vita splende l'Anima, si distende, in dietro effusa pende.
Ospiti fummo (O tu che m'ami: ti sovviene? Era ne le tue vene il Ritmo), ospiti fummo in imperi di gloria. Nativa è la memoria in noi, dei fiori ardenti su dai cavi alabastri come tangibili astri, dei misteri veduti, degli amori goduti, degli aromi bevuti.
In qual sera purpurea chiudemmo gli occhi? Quale fu ne l'ora mortale il nostro Dio? Da quale portentosa ferita esalammo la vita? Forse dopo una strage di eroi? Sotto il profondo ciel d'un letto profondo? Le nostre spoglie fiera custodì la Chimera ne la purpurea sera.
E al risveglio improvviso dal sonno secolare noi vedemmo raggiare un altro cielo; udimmo altre voci, altri canti; udimmo tutti i pianti umani, tutti i pianti umani che la Terra nel suo cerchio rinserra. Udimmo tutti i vani gemiti e gli urli insani e le bestemmie immani.
Udimmo taciturni la querela confusa. Ma ne l'anima chiusa l'antichissimo sogno, che fluttuava ancòra, ebbe una nuova aurora. E vivemmo; e ingannammo la vita ricordando quella morte, cantando dei misteri veduti, degli amori goduti, degli aromi bevuti.
Or conviene il silenzio: alto silenzio. Oscuro è il sogno del futuro. Nuova morte ci attende. Ma in qual giorno supremo, o Fato, rivivremo? Quando i Poeti al mondo canteranno su corde d'oro l'inno concorde: - O voi che il sangue opprime, Uomini, su le cime splende l'Alba sublime!