Nonno, l'argento della tua canizie rifulge nella luce dei sentieri passi tra i fichi, i susini e i peri con nelle mani un cesto di primizie: "Le piogge di Settembre già propizie | gonfian sul ramo i fichi bianchi e neri, susine claudie varietà pregiata di susine... a chi lavori e speri Gesù concede tutte le delizie" Mi specchio ancora nello specchio rotto rivedo i finti frutti d'alabastro... Ma tu sei morto e non c'è più Gesù.
Nel mio giardino triste ulula il vento, cade l'acquata a rade gocce, poscia più precipite giù crepita scroscia a fili interminabili d'argento. Guardo la Terra abbeverata e sento ad ora ad ora un fremito d'angoscia.
Soffro la pena di colui che sa la sua tristezza vana e senza mete; l'acqua tessuta dall'immensità chiude il mio sogno come in una rete, e non so quali voci esili inquiete sorgano dalla mia perplessità.
"La tua perplessità mediti l'ale verso meta più vasta e più remota! È tempo che una fede alta ti scuota, ti levi sopra te, nell'Ideale! Guarda gli amici. Ognun palpita quale demagogo, credente, patriota.
Guarda gli amici. Ognuno già ripose la varia fede nelle varie scuole. Tu non credi e sogghigni. Or quali cose darai per meta all'anima che duole? La Patria? Dio? l'Umanità? Parole che i retori t'han fatto nauseose!...
Lotte brutali d'appetiti avversi dove l'anima putre e non s'appaga... Chiedi al responso dell'antica maga la sola verità buona a sapersi; la Natura! Poter chiudere in versi i misteri che svela a chi l'indaga!"
Ah! La Natura non è sorda e muta; se interrogo il lichéne ed il macigno essa parla del suo fine benigno... Nata di sé medesima, assoluta, unica verità non convenuta, dinanzi a lei s'arresta il mio sogghigno.
Essa conforta di speranze buone la giovinezza mia squallida e sola; e l'achenio del cardo che s'invola, la selce, l'orbettino, il macaone, sono tutti per me come personae, hanno tutti per me qualche parola...
Il cuore che ascoltò, più non s'acqueta in visïoni pallide fugaci, per altre fonti va, per altra meta... O mia Musa dolcissima che taci allo stridìo dei facili seguaci, con altra voce tornerò poeta!
Dolce tristezza, pur t'aveva seco, non è molt'anni, il pallido bambino sbocconcellante la merenda, chino sul tedioso compito di greco... Più tardi seco t'ebbe in suo cammino sentimentale, adolescente cieco di desiderio, se giungeva l'eco d'una voce, d'un passo femminino. Oggi pur la tristezza si dilegua per sempre da quest'anima corrosa dove un riso amarissimo persiste, un riso che mi torce senza tregua la bocca... Ah! veramente non so cosa più triste che non più essere triste!
Vivere cinque ore? Vivere cinque età?... Benedetto il sopore che m'addormenterà... Ho goduto il risveglio dell'anima leggiera: meglio dormire, meglio prima della mia sera. Poi che non ha ritorno il riso mattutino. La bellezza del giorno è tutta nel mattino.
Ho rivisto il giardino, il giardinetto contiguo, le palme del viale, la cancellata rozza dalla quale mi protese la mano ed il confetto...
"Piccolino, che fai solo soletto?" "Sto giocando al Diluvio Universale" Accennai gli strumenti, le bizzarre cose che modellavo nella sabbia, ed ella si chinò come chi abbia fretta d'un bacio e fretta di ritrarre la bocca, e mi baciò tra le sbarre come si bacia un uccellino in gabbia.
Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto di quel volto tra le sbarre quadre! La nuca mi serrò con le mani ladre; ed io stupivo di vedermi accanto al viso, quella bocca tanto, tanto diversa dalla bocca di mia Madre!
"Piccolino, ti piaccio che mi guardi? Sei qui pei bagni? Ed affittate là?" Subito mi lasciò, con negli sguardi un vano sogno (ricordai più tardi) un vano sogno di maternità...
"Una cocotte..."
"Che vuol dire mammina?" "Vuo dire che è una cattiva signorina: non bisogna parlare alla vicina!" Co-co-tte... La strana voce parigina dava alla mia fantasia bambina un senso buffo d'uovo e di gallina...
Pensavo deità favoleggiate: i naviganti e l'Isole Felici... Co-co-tte... le fate intese a malefici con cibi e bevande affatturate... Fate saranno, chi sa quali fate, e in chi sa quali tenebrosi offici!
Un giorno -giorni dopo- mi chiamò tra le sbarre fiorite di perbene: "O piccolino, che non mi vuoi più bene?" "È vero che sei una cocotte? " Perdutamente rise... E mi baciò con le pupille di tristezza piene
Tra le gioie defunte e i disinganni dopo vent'anni, oggi si ravviva il tuo sorriso... Dove sei, cattiva signorina? Sei viva? Come inganni (meglio per te non essere più viva!) la discesa terribile degli anni?
Oimè! Da che non giova il tuo belletto e il cosmetico già fa mala prova l'ultimo amante disertò l'alcova... Uno, sol uno: il piccolo folletto che donasti d'un bacio e d'un confetto, dopo vent'anni, oggi, ti ritrova
in sogno, e t'ama, in sogno, e dice: T'amo! Da quel mattino dell'infanzia pura forse ho amato te sola, o creatura! Forse ho amato te sola! E ti richiamo! Se leggi questi versi di richiamo ritorna a chi t'aspetta, o creatura!
Vieni, Che importa se non sei più quella che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno, o vestita di tempo! Oggi ho bisogno del tuo passato! Ti rifarò bella coma Carlotta, come Graziella, come tutte le donne del mio sogno!
Il mio sogno è nutrito d'abbandono, di rimpianto. Non amo che le rose che non colsi. Non amo che le cose che potevano essere e non sono state... Vedo la casa; ecco le rose del bel giardino di vent'anni or sono!
Oltre le sbarre il tuo giardino intatto fra gli eucalipti liguri si spazia... Vieni! T'accoglierà l'anima sazia. Fa' che io riveda il tuo volto disfatto; ti bacerò: rifiorirà nell'atto, sulla tua bocca l'ultima tua grazia.
Vieni! Sarà come se a me, per mano, tu riportassi me stesso d'allora, il bimbo parlerà con la Signora. Risorgeremo dal tempo lontano. Vieni! Sarà come se a te, per mano, io riportassi te, giovane ancora.
L'Uno è tutto esaurito, non lo trova più nessuno, a chi dà copia dell'Uno un milione è profferito.
Col più gran caffè concerto vien Giolitti un poco male per un male un poco incerto, vien con tutto il personale del Suffragio Universale. Ma - pagliaccio o rosso o bruno - tutti chiedono dell'Uno, l'Uno già tutto esaurito.
Finalmente il Vaticano lascia il Papa ed il Concilio, balla il tango col sovrano dal garofano vermiglio. Tutti vanno in visibilio: il prelato col tribuno, tutti chiedono dell'Uno: l'Uno - ahimè - tutto esaurito!
Trema all'Uno e terra e mare! La San Giorgio per isbaglio si rimette a galleggiare, perciò grato l'ammiraglio contro un già prossimo incaglio contro i tiri di Nettuno premunirsi vuol dell'Uno, l'Uno - ohimè - tutto esaurito!
Stanco d'essere il fantoccio d'un insipido frasario grida Verdi: Alfin mi scoccio di cotesto centenario. Qui m'annoio solitario. Ecco il Numero. Ma l'Uno? L'Uno - ohimè - non l'ha nessuno, l'Uno è già tutto esaurito!
Levigandosi l'alloro Gabriele inquieto appare: un mistero: il Pomo d'oro ben volevo ricercare sul rarissimo esemplare. Gabriele andrà digiuno; splende il numero, ma l'Uno, l'Uno è già tutto esaurito.
Vien Mascagni truce in vista ché su l'Uno spera già e già teme un'intervista "Poiché io sono - ognun lo sa - mammoletta d'umiltà... " - Che voi siate un fiore o un pruno, gran maestro, fa tutt'uno, l'Uno è già tutto esaurito.
Térésah, Carola, Amalia, l'altre insigni letterate, che oggi infiammano l'Italia, si presentano infiammate come tante forsennate: un prurito inopportuno tutte sentono dell'Uno, l'Uno - ohimè - tutto esaurito.
Non resiste la Gioconda, balla fuori arguta e gaia con la sua facciona tonda di perfetta giornalaia. Cento quindici migliaia mi richiedono dell'Uno! A chi dà copia dell'Uno un milione è profferito.
Oh successo inopportuno! L'Uno è già tutto esaurito!
Ah! Difettivi sillogismi! L'io che c'è sì caro, muore ad ogni istante senza rimpianto. Muore nel riposo e nella veglia. Un calice di vino un grano d'oppio, uno sbigottimento una ferita, basta a dileguarlo. Ma ci acqueta il pensiero che al risveglio ritroveremo intatto e vigilante il buono fanciulletto interïore che ci ripete d'esser sempre noi... Ah! Fanciullesca è veramente questa anima semplicetta che riduce alla nostra stadera l'infinito; nutre speranze, chiede privilegi più spaventosi del più spaventoso nulla, ché il nulla è non poter morire. Come pensare senz'abbrividire tutta l'eternità chiusa nell'io in quest'angusto carcere terreno? Quasi bramosi fantolini e vani preghiamo un bene e non sappiamo quale. Quando per anni o per follia s'offusca l'altrui cervello, quella decadenza più non c'inquieta della decadenza corporea. Permane la speranza che l'io del caro sopravviva ancora mentre è già come se non fosse più. Ora se quasi ci si acqueta in vita allo sfacelo della mente immemore che mai vogliamo dalla morte immune? Questa cosa di noi che vuol persistere indefinita, è dunque indefinibile come il raggio ch'emana dalla lampada, come il suono che emana dal lïuto; lampada e lïuto sono tra gli arredi più famigliari e semplici che posso scomporre ricomporre con le mani; il mistero m'appare se mi chiedo che sia, di dove venga, dove vada il prodigio del suono e della luce... Oimè! L'essenza che rivibra in noi non può per intelletto esser compresa da poi che l'io solo con se stesso, soggetto, oggetto della conoscenza, come uno specchio vano si moltiplica inutilmente ed infinitamente e nel riflesso è prigioniero il raggio di verità che l'occhio non discerne. Giova quindi sottrarci all'incantesimo alla voce che implora di rivivere come a un morbo insanabile terrestre. Negli attimi di grazia, quando l'io dilegua nei pensier contemplativi quando l'istinto tace e si compiace nella gioia dell'utile non nostro o freme ad una strofe ad una musica nell'ebrezza senz'utile dell'arte, forse ci giunge il pallido riflesso d'una luce remota, della vita che ci attende al di là, nel puro spirito, nel non essere noi, nell'ineffabile. È la fede che Socrate morente predicava all'alunno: «Datti pace! Non morirò: seppelliranno l'altro». È la luce che Baghava Purana rivelava sul tronco del palmizio: «Solo eterno è lo spirito. Non piangere su te su me su altri. Perché l'io ed il non io son frutto d'ignoranza. Desideravi un figlio, o Re; l'avesti; oggi provi lo strazio del distacco, strazio che dànno tutte le fortune a chi s'illude e pensa durature l'apparenze caduche della vita. Solo eterno è lo spirito. Nei tempi chi fu per te quel figlio che tu piangi? Chi tu fosti per lui? Che voi sarete l'uno per l'altro nell'ignoto andare? Sabbia del mare, foglie date al vento... Solo eterno è lo spirito. Consolati». Ma il re singhiozza disperato ancora e pel prodigio d'uno di quei rishy l'anima si ridesta nel cadavere, si guarda intorno sbigottita, dice: «In quale delle innumeri apparenze d'animali, di uomini, di devhas m'ebbi per padre questo che m'abbraccia? Non mi toccare: io non ti riconosco. O tu che piangi su di me non piangere. Solo eterno è lo spirito. Consolati!». Così parlato il giovinetto muore un'altra volta. L'anima s'invola eternamente. E il Re non piange più.
Fanciullo formidabile: soldato dell'Alpi e tu mi chiedi ch'io celebri il tuo gesto in versi miei! Non trovo ritmi - oimè! - non trovo rime così come vorrei al tuo gesto sublime! Ma sai tu quanto sia bello il tuo gesto, simbolica la spoglia dell'aquila regale che t'offerse l'Altissimo - redento! - a guiderdone della baldanza tua liberatrice? La vittima che dice: Terra d'Italia è questa! a consenso palese dei cieli sommi nella santa gesta?
II.
Tu non sapevi. Solo con te stesso e coi fratelli in una forza sola, sostavi sulla gola vertiginosa, l'anima in vedetta, protetto dalla vetta signoreggiata. Il cuore batteva impaziente dell'assalto. Il cielo era di smalto cerulo, nel silenzio intatto come quando non era l'uomo ed il dolore... Era il meriggio alpino, splendeva il sole nella valle sgombra. In larghe rote s'annunciò dall'alto l'olocausto divino, la messaggiera, disegnando un'ombra.
III.
Che pensasti nell'attimo? Colpisti. Bene colpisti. Il vortice dell'ale precipitò ventandoti sul viso. E l'aquila regale ecco immolasti sul granito alpino come sull'ara sacra alla riscossa del popolo latino. E la tua mano rossa fu del sangue ricchissimo aquilino. Battezzasti così la tua mano, nella stretta che tutti ebbero a gara, commentando l'augurio e la bravura, battezzasti così con la tua mano tutti i compagni tuoi, dal giovinetto imberbe al capitano!
IV.
Sarcasmo inconsapevole! E tu mandi oggi la spoglia a noi che con bell'arte le si ridoni immagine di vita; ma quale arte iscaltrita può simulare l'irto palpitare di penne e piume, il demone gagliardo tutto rostro ed artigli e grido e sguardo nell'ora che si scaglia? Nessuna sorte è triste in questi giorni rossi di battaglia: fuorché la sorte di colui che assiste... E - sarcasmo indicibile per noi scelti ai congegni ed alla vettovaglia - tu strappasti l'emblema degli eroi ed a noi mandi un'aquila di paglia!...