Fu quando la cisterna si riempí di acqua aprilina e un'algebra sottilissima inghiottiva tutti i sensi degli uomini in un punto. Occhi lunghi di gru trattenevano l'ombra sui rilievi delle felci; crescevano le ali dei merli e il bosco era come l'unghia che s'infilza con un colpo secco. Era tutto nuovo e strano, eppure un peso abituale nell'aria sequestrava la speranza.
Bisogna entrare dal cancello chiuso calpestando il piccolo quadrato d'erba; poi varcare la porta della chiesa e una porticina dietro il pilastro. Fu la bella Agnes, sventurata, la piú amata da quel padre ricco. Per lei fissò il freddo della pietra e i secoli solitari che la proteggono. E io ora ti chiedo: è valso a te l'amore – quest'insistenza dei vivi – il tempo dello scultore, le gote bianche che i poveri contadini avranno toccato con tanta pietà ogni volta che tornano nelle caverne d'ombra dove una fiamma consuma la briciola di desiderio quotidiano?
Traccerò cerchi con ossidiana, segno per segno, seguendo il buio dei verbi quando il giorno sarà l'ultimo giorno in mezzo a bestie golose che con artigli lunari vorranno amare la vita di un solo verso beneficio di bussole indenni sotto colonne d'edera rannuvolate. Sarà così che non trascriveremo il corso di fiumi vivissimi. Resterò nei cerchi sotto nevi avverse e abolirò il mare che m'incendia la matita desolata di questi abissi.
Come quel coltello del suo desiderio di fanciullo, dalle lame spiegate e dal bel manico rosso, con il nome inciso. Ha trascorso anni a inseguirlo tra i sogni: sottili frecce di faggio o intagli di animali in legno di noce, il nodo antico di un cedro, il sangue di un primo corpo. Da grande, ne affila il taglio, conquistato nella memoria in cui abbatte le angosce che celano i ricordi.
Parlammo sicuri tra belle acque bagnate da tamerici e accordammo parole, quiete le nostre mani – ricche in oro estorto – e le fronti alte e assolate dalle molte ore trascorse. Dicevamo quello che non volevamo dire e tacevamo le intenzioni amare; immensamente gentili, noi – i mortali, i non amati – vegliavamo su rispettabili leggi umane. Cosí, vedevamo cavalcare Ciro il nobile, l'eletto, prudente sin dall'infanzia. E noi, corruttibili e accecati dalla bellezza del suo aspetto, muti e silenziosi dietro lo scudo di suo fratello Artaserse.
Per quanto brutte ci sembrassero le iguane abbiamo poco da temere da quei rettili erbivori.
Spesso ci sforziamo di scartare l'infausto dal sublime tramite i sensi. C'è sempre stato in noi un fiacco dilettantismo di fronte alla grazia piú che risoluta con cui, ignorando noi, fu creato il mondo.