Quando l'Eterno passeggiò col guardo Tutto il creato, diffondendo intorno Riso di pace, e fiammeggiar si vide Nè cieli il Sole, e rotear le stelle Dietro la dolce-radïante Luna Tra il fresco vel di solitaria notte, E germogliò natura, e al grigio capo Degli altissimi monti alberi eccelsi Fèro corona, e orrisonando udissi L'ampio padre Oceàn fremer da lungi; Sin da quel giorno d'aquilon su i vanni Scese Giustizia, e i fulmini guizzando Al fianco le strideano, i dispersi Crini eran cinti d'abbaglianti lampi. In alto assisa vide ergersi il fumo D'innocuo sangue, che fraterna mano Invida sparse, e dagli vacui abissi A tracannarlo, e tingersi le guance Morte ansante lanciossi: immerse allora La Dea nel sangue il brando, e a far vendetta Piombò su l'orbe, che tacque e crollò. Ma fra le colpe di natura infame Brutta d'orrore la tremenda Dea Si fè nel viso, e 'l lagrimato manto E le aggruppate chiome ad ogni scossa Grondavan sangue, e fra gemiti ed ululi S'udia l'inferno e la potenza eterna Bestemmiando invocati. - A un tratto sparve Contaminata la Giustizia fera, E al sozzo pondo dell'umane colpe Le suo immense bilance cigolaro; Balzò l'una alle sfere, e l'altra cadde Inabissata nel tartareo centro.
L'Onnipossente dal più eccelso giro Della sua gloria, d'onde tutto move, Udì le strida del percosso mondo, E al ciel lanciarsi la ministra eterna Vide: accennò la fronte, e le soavi Arpe angeliche tacquero; e la faccia Prostraro i cherubini, e '1 firmamento Squassato s'incurvò. - Verrà quel giorno, Verrà quel giorno, disse Dio, che all'aere Ondeggeranno quasi lievi paglie L'audaci moli; le turrite cime, D'un astro allo strisciar, cenere e fumo Saranno a un tratto; tentennar vedrassi Orrisonante la sferrata terra, Che stritolata piomberà nel lembo D'antiqua notte, fra le cui tenèbre E Luna e Sol staran confusi e muti; Negro e sanguigno bollirà furente Lo spumante Oceàn, rigurgitando Dall'imo ventre polve e fracid'ossa, Che al rintronar di rantolosa tuba Rivestiran lor salma, e quai giganti Vedransi passeggiar su le ruine Dè globi inabissati! E morte e nulla Tutto sarà: precederammi il foco, Fia mio soglio Giustizia, e fianmi ancelle, Armate il braccio ed infiammato il volto, Ira e Paura! Ma Pietà sul mondo Scenda sino a quel giorno, e di tremenda Giustizia fermi l'instancabil brando. Disse; e Pietà, dei Serafin tra mille Voci di gaudio, dell'Eterno al trono Le ginocchia piegò; stese la palma Il Re dei re su la chinata testa, E l'unse del suo amor. Udissi allora Spontaneamente volteggiar pè cieli Inno sacro a Pietà: m'udite attenti E terra e mar, e canterò; m'udite, Chè questo è un inno che dal ciel discende.
Sino al trono di Dio anciò mio cor gli accenti, Che in murmure tremendo Rispondono i torrenti, E dalla ferrea calma Delle notti profonde Palma battendo a palma Ogni morto risponde.
D'entusïasmo ho l'anima Albergo; e sol d'un Nume Io son cantor: degli angeli L'impenetrabil lume Circonda il mio pensiero, Ch'erto su lucid'ali, Sprezza l'invito altero Dè superbi mortali.
E coronar di laudi Dovrò chi turpe e folle Splendido sol per l'auro Sa l'orgoglio s'estolle? Che dir deggio di lui? Pria di giustizia il brando Sù forti bracci sui Vada folgoreggiando;
E canterò. Nettarea Da me non cerchi ei lode, Se a lutulenta in braccio Sorte tripudia e gode, E tra un'immensa schiera D'insania al carro avvinto scioglie con sua man nera A iniquitate il cinto.
E tu chi sei che il titolo Santo d'amico usurpi? E vile d'amicizia L'aspetto almo deturpi? Chi sei tu che m'inviti Di gloria a spander raggio E a sciòrre inni graditi A chi in virtù è selvaggio?
Non sai che santuario Al ver nell'alma alzai E che io del vero antistite Sempre d'esser giurai? Non sai che mercar fama Da tal canto non curo, E più dolce m'è brama Sul ver posarmi oscuro?
Vero suonò di Davide Il pastoral concento, E a Dio piacque il veridico Suono, e tra cento e cento L'unse à popoli ebrei Rege di pace, e adorni D'illustri eventi e bèi Fè dell'uom giusto i giorni.
E immagine d'obbrobrio Vuoi tu farmi, o profano? Oh! quell'immonda faccia Copriti con la mano Lungi da me: chi fia Cui faccian forza i detti Ch'io l'alta cetra mia Di ricca peste infetti!
Garrir fole non odemi L'atrio di adulazione, E in questa solitudine Dall'aurata prigione Fuggo; esecrando il folle Che blandisce con mèle Il grande; e in sen gli bolle Rancor, invidia, e fiele.
Dunque chi vuol, d'encomio Canti impudente intuoni Per lo tuo eroe; ch'io cantici Fra gli angelici suoni Ergo al Solopossente, Che dall'empirea sede Gl'inni in letizia sente Di verità e di fede.
Io non invidio ai vati Le lodi e i sacri allori, Nè curo i pregi e gli ori D'un duce o d'un sovran. Saran miei dì beati Se avrò il mio crine cinto Di serto vario-pinto Tessuto di tua man. Saran miei dì beati Se in mezzo a bosco ombroso Il volto tuo vezzoso Godrommi a contemplar. Che bel vederci allora Mille cambiar sembianti, E direi: O cori amanti, Cessate il palpitar!
Che stai? Già il secol l'orma ultima lascia; dove del tempo son le leggi rotte precipita, portando entro la notte quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia.
Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia, troppo hai del viver tuo l'ore prodotte; or meglio vivi, e con fatiche dotte a chi diratti antico esempi lascia.
Figlio infelice, e disperato amante, e senza patria, a tutti aspro e a te stesso, giovine d'anni e rugoso in sembiante,
che stai? Breve è la vita, e lunga è l'arte; a chi altamente oprar non è concesso fama tentino almen libere carte.