Madre che ho fatto soffrire (cantava un merlo alla finestra, il giorno abbassava, sì acuta era la pena che morte a entrambi io m'invocavo) madre ieri in tomba obliata, oggi rinata presenza, che dal fondo dilaga quasi vena d'acqua, cui dura forza reprimeva, e una mano le toglie abile o incauta l'impedimento; presaga gioia io sento il tuo ritorno, madre mia che ho fatto, come un buon figlio amoroso, soffrire. Pacificata in me ripeti antichi moniti vani. E il tuo soggiorno un verde giardino io penso, ove con te riprendere può a conversare l'anima fanciulla, inebriarsi del tuo mesto viso sì che l'ali vi perda come al lume una farfalla. È un sogno, un mesto sogno; ed io lo so. Ma giungere vorrei dove sei giunta, entrare dove tu sei entrata ho tanta gioia e tanta stanchezza! farmi, o madre, come una macchia dalla terra nata, che in sé la terra riassorbe ed annulla.
Mamma, c'è un tedio oggi, una sottile malinconia, che dalle cose in ogni vita s'insinua, e fa umili i sogni dell'uomo che il suo mondo ha nel cuore. Mamma, ritornerà oggi all'amore tuo, che un dì l'ebbe a vile? Chi è solo con il suo solo dolore?
Mamma, il tempo che fugge t'ansia; e l'ansia che impera nel tuo cuore c'è, forse anche nel mio; c'è, pur latente, il male che ti strugge; son le tue cure in me domenicali malinconie. Lente lente ora sfollano le vie nella sera di festa e verdi e rossi accendono fanali le osterie di campagna. È una strana sera, mamma, una che certo affanna i cuori come il tuo soli ed amanti, sugli ultimi mari i naviganti, dentro l'orride celle i prigionieri. Canterellando scendono i sentieri del borgo i cittadini, torna dolce al fanciullo la sua casa; ed il mistero ond'è la vita invasa tu con preghiere esprimi.
Mamma, il tempo che fugge cure con cure alterna; ma in chi sugge il latte e in chi denuda la mammella c'è un sangue solo per la vita bella.
Quando il pensiero di te mi accompagna nel buio, dove a volte dagli orrori mi rifugio del giorno, per dolcezza immobile mi tiene come statua. Poi mi levo, riprendo la mia vita. Tutto è lontano da me, giovanezza, gloria; altra cura dagli altri mi strana. Ma quel pensiero di te che vivi, mi consola di tutto. Oh tenerezza immensa, quasi disumana!
Nella mia giovinezza ho navigato lungo le coste dalmate. Isolotti a fior d'onda emergevano, ove raro un uccello sostava intento a prede, coperti d'alghe, scivolosi, al sole belli come smeraldi. Quando l'alta marea e la notte li annullava, vele sottovento sbandavano più al largo, per fuggirne l'insidia. Oggi il mio regno è quella terra di nessuno. Il porto accende ad altri i suoi lumi; me al largo sospinge ancora il non domato spirito, e della vita il doloroso amore.
Ho parlato a una capra, Era sola sul prato, era legata. Sazia d'erba, bagnata dalla pioggia, belava.
Quell'uguale belato era fraterno al mio dolore. Ed io risposi, prima per celia, poi perché il dolore è eterno, ha una voce e non varia. Questa voce sentiva gemere in una capra solitaria.
Intorno a una grandezza solitaria non volano gli uccelli, né quei vaghi gli fanno accanto il nido, altro non odi che il silenzio, non vedi altro che l'aria.
Ed amai nuovamente; e fu di Lina dal rosso scialle il più della mia vita. Quella che cresce accanto a noi, bambina dagli occhi azzurri, è dal suo grembo uscita.
Trieste è la città, la donna è Lina, per cui scrissi il mio libro di più ardita sincerità; né dalla sua fu fin ad oggi mai l'anima partita.
Ogni altro conobbi umano amore; ma per Lina torrei di nuovo un'altra vita, di nuovo vorrei cominciare.
Per l'altezze l'amai del suo dolore; perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra, e tutto seppe, e non se stessa, amare.
Falce martello e la stella d'Italia ornano nuovi la sala. Ma quanto dolore per quel segno su quel muro!
Esce, sorretto dalle grucce, il Prologo. Saluta al pugno; dice sue parole perché le donne ridano e i fanciulli che affollano la povera platea. Dice, timido ancora, dell'idea che gli animi affratella; chiude: "E adesso faccio come i tedeschi: mi ritiro". Tra un atto e l'altro, alla Cantina, in giro rosseggia parco ai bicchieri l'amico dell'uomo, cui rimargina ferite, gli chiude solchi dolorosi; alcuno venuto qui da spaventosi esigli, si scalda a lui come chi ha freddo al sole.
Questo è il Teatro degli Artigianelli, quale lo vide il poeta nel mille novecentoquarantaquattro, un giorno di Settembre, che a tratti rombava ancora il canone, e Firenze taceva, assorta nelle sue rovine.