Lo stupro di Aghanaskar
Veli insozzati dai calici,
il mantra dello scorpione
biascicato come supplizio.
Bugiarda, Aghi, bugiarda.
La scalinata pel tuo vessillo
s'è ulcerata al grido di duna,
e i gradini han abbracciato
la secchezza della sabbia.
Ora è tardi: non alla sera,
non sotto le labbra di Virgo.
Respira, questi profumi,
quest'armature, l'ovunque.
Il povero cigno dibatte
l'ali appesantite dall'alghe,
ma invecchia nello stagno
coi piccoli, pallida tenebra.
E tu, delle tue ali, che ne farai?
E tu, madre del tuo rimorso,
come credi l'abbandonerai?
Ma la notte è paziente,
e l'alba spesso temporeggia
sotto spesse cortine di nubi.
E l'attesa, tra tutte le funi,
è la più fragile umana velleità.
Così, mentre la luna nuova
è troppo giovane per capire,
e il sole tarda a rinvenire,
ci immergiamo con languore
in una selvatica danza,
per dipinger col deserto
la voluttà dell'universo.
Non c'è pace per noi, Aghi;
non dopo aver assorbito
dal cuor leggiadro del vespro,
gli intimi aromi delle nostre
essenze. Stanotte spariamo.
Il poeta è morto,
la poesia esiliata.
Figlie dello stupro,
liriche d'assenzio.
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