L'anno dei ritratti a encausto
Rientravo dall'aver piantato altri alberi.
Tutto sudato, crollai di traverso sul divano.
Al tavolo da pranzo sedevate tu e Clare,
cantando, come fate, in armonia
che pure io sento bella
– soprano e mezzo soprano,
per quel che ci capisco. Mi hai fatto
l'occhietto e, col viso in liquefazione,
il mio aspetto doveva esser quello dell'anno
in cui dipingesti tutti i nostri ritratti,
amorevolmente, con finezza squisita,
su piastrelle ceramiche, a olio che non secca,
uno o al più due colori alla volta,
e li portasti in paese, inclinati, non asciutti,
in plastici contenitori da gelato.
Era pittura a encausto,
la fotografia dell'antica Roma,
che si sviluppa per successive cotture
finché vive, libera dal tempo, trasposta
dietro uno smalto prima assente.
Facesti poi qualche piastrella figurata
per il camino a mosaico, e smettesti.
Hai vero talento per l'arte. Ma è strano:
non ti trascina. Non è la tua ossessione.
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