Scritta da: Antonella Marotta
in Poesie (Poesie d'Autore)
Andiamo, andiamo disperatamente
ancora insieme ne la notte fonda
e lieve e vellutata dell'estate.
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Andiamo, andiamo disperatamente
ancora insieme ne la notte fonda
e lieve e vellutata dell'estate.
Ho rivisto il giardino, il giardinetto
contiguo, le palme del viale,
la cancellata rozza dalla quale
mi protese la mano ed il confetto...
"Piccolino, che fai solo soletto?"
"Sto giocando al Diluvio Universale"
Accennai gli strumenti, le bizzarre
cose che modellavo nella sabbia,
ed ella si chinò come chi abbia
fretta d'un bacio e fretta di ritrarre
la bocca, e mi baciò tra le sbarre
come si bacia un uccellino in gabbia.
Sempre ch'io viva rivedrò l'incanto
di quel volto tra le sbarre quadre!
La nuca mi serrò con le mani ladre;
ed io stupivo di vedermi accanto
al viso, quella bocca tanto, tanto
diversa dalla bocca di mia Madre!
"Piccolino, ti piaccio che mi guardi?
Sei qui pei bagni? Ed affittate là?"
Subito mi lasciò, con negli sguardi
un vano sogno (ricordai più tardi)
un vano sogno di maternità...
"Una cocotte..."
"Che vuol dire mammina?"
"Vuo dire che è una cattiva signorina:
non bisogna parlare alla vicina!"
Co-co-tte... La strana voce parigina
dava alla mia fantasia bambina
un senso buffo d'uovo e di gallina...
Pensavo deità favoleggiate:
i naviganti e l'Isole Felici...
Co-co-tte... le fate intese a malefici
con cibi e bevande affatturate...
Fate saranno, chi sa quali fate,
e in chi sa quali tenebrosi offici!
Un giorno -giorni dopo- mi chiamò
tra le sbarre fiorite di perbene:
"O piccolino, che non mi vuoi più bene?"
"È vero che sei una cocotte? "
Perdutamente rise... E mi baciò
con le pupille di tristezza piene
Tra le gioie defunte e i disinganni
dopo vent'anni, oggi si ravviva
il tuo sorriso... Dove sei, cattiva
signorina? Sei viva? Come inganni
(meglio per te non essere più viva!)
la discesa terribile degli anni?
Oimè! Da che non giova il tuo belletto
e il cosmetico già fa mala prova
l'ultimo amante disertò l'alcova...
Uno, sol uno: il piccolo folletto
che donasti d'un bacio e d'un confetto,
dopo vent'anni, oggi, ti ritrova
in sogno, e t'ama, in sogno, e dice: T'amo!
Da quel mattino dell'infanzia pura
forse ho amato te sola, o creatura!
Forse ho amato te sola! E ti richiamo!
Se leggi questi versi di richiamo
ritorna a chi t'aspetta, o creatura!
Vieni, Che importa se non sei più quella
che mi baciò quattrenne? Oggi t'agogno,
o vestita di tempo! Oggi ho bisogno
del tuo passato! Ti rifarò bella
coma Carlotta, come Graziella,
come tutte le donne del mio sogno!
Il mio sogno è nutrito d'abbandono,
di rimpianto. Non amo che le rose che non colsi.
Non amo che le cose che potevano essere e non sono state...
Vedo la casa; ecco le rose
del bel giardino di vent'anni or sono!
Oltre le sbarre il tuo giardino intatto
fra gli eucalipti liguri si spazia...
Vieni! T'accoglierà l'anima sazia.
Fa' che io riveda il tuo volto disfatto;
ti bacerò: rifiorirà nell'atto,
sulla tua bocca l'ultima tua grazia.
Vieni! Sarà come se a me, per mano,
tu riportassi me stesso d'allora,
il bimbo parlerà con la Signora.
Risorgeremo dal tempo lontano.
Vieni! Sarà come se a te, per mano,
io riportassi te, giovane ancora.
Svegliandomi il mattino, a volte provo
sì acuta ripugnanza a ritornare
in vita, che di cuore farei patto
in quell'istante stesso di morire.
Il risveglio m'è allora un altro nascere;
ché la mente lavata dall'oblio
e ritornata vergine nel sonno
s'affaccia all'esistenza curiosa.
Ma tosto a lei l'esperienza emerge
come terra scemando la marea.
E così chiara allora le si scopre
l'irragionevolezza della vita,
che si rifiuta a vivere, vorrebbe
ributtarsi nel limbo dal quale esce.
Io sono in quel momento come chi
si risvegli sull'orlo d'un burrone,
e con le mani disperatamente
d'arretrare si sforzi ma non possa.
Come il burrone m'empie di terrore
la disperata luce del mattino.
È l'ora in cui si baciano i marmocchi
assonnati sui caldi ginocchi.
Ma io, per lunghe strade, coi miei occhi
inutilmente. Io, mostro da niente.
A volte sulla sponda della via
preso da infinito scoramente
mi seggo; e dove vado mi domando,
perché cammino. E penso la mia morte
e mi vedo già steso nella bara
troppo stretta fatoccio inanimato...
Quant'albe nasceranno ancora al mondo
dopo di noi!
Di ciò che abbiam sofferto
di tutto ciò che in vita ebbimo a cuore
non rimarrà il più piccolo ricordo
Le generazioni passan come
onde di fiume...
Una mortale pesantezza il cuore
m'opprime.
Inerte vorrei esser fatto
come qualche antichissima rovina
e guardare succedersi le ore,
e gli uomini mutare i passi, i cieli
all'alba colorirsi, scolorirsi
a sera...
Taci anima mia. Son questi i tristi giorni in cui senza volontà si vive,
i giorni dell'attesa disperata.
Come l'albero ignudo a mezzo inverno
che s'attriste nella deserta corte
io non credo di mettere più foglie
e dubito d'averle messe mai.
Andando per la strada così solo
tra la gente che m'urta e non mi vede
mi pare d'esser da me stesso assente.
E m'accalco ad udire dov'è ressa
sosto dalle vetrine abbarbagliato
e mi volto al frusciare d'ogni gonna.
Per la voce d'un cantastorie cieco
per l'improvviso lampo d'una nuca
mi sgocciolano dagli occhi sciocche lacrime
mi s'accendon negli occhi cupidigie.
Chè tutta la mia vita è nei miei occhi:
ogni cosa che passa la commuove
come debola vento un'acqua morta.
Io son come uno specchio rassegnato
che riflette ogni cosa per la via.
In me stesso non guardo perché nulla
vi troverei...
E, venuta la sera, nel mio letto
mi stendo lungo come in una bara.
Noi non ci conosciamo. Penso ai giorni
che, perduti nel tempo, c'incontrammo,
alla nostra incresciosa intimità.
Ci siamo sempre lasciati
senza salutarci,
con pentimenti e scuse da lontano.
Ci siam riaspettati al passo,
bestie caure,
cacciatori affinati,
a sostenere faticosamente
la nostra parte di estranei.
Ritrosie disperanti,
pause vertiginose e insormontabili,
dicevan, nelle nostre confidenze,
il contatto evitato e il vano incanto.
Qualcosa ci è sempre rimasto,
amaro vanto,
di non aver ceduto ai nostri abbandoni,
qualcosa ci è sempre mancato.
Mi desto dal penoso sonno solo
nel cuore della notte.
Tace intorno
la casa come vuota e laggiù brilla
silenzioso coi suoi lumi un porto.
Ma sì freddi e remoti son quei lumi
e sì alto il silenzio nella casa
che mi levo sui gomiti in ascolto.
Improvviso terrore mi sorprende
il fiato e allarga nella notte gli occhi:
separata dal resto della casa
separata dal resto della terra
è la mia vita ed io son solo al mondo.
Poi il ricordo delle trite vie
e dei nomi e dei volti consueti
emerge come spiaggia da marea
e di me sorridendo mi riadagio.
Ma svanita col sonno la paura,
un gelo in fondo all'anima rimane:
io tra gli uomini vado
curioso di lor ma come estraneo;
ed alcuno non ho nelle cui mani
metter le mani
e col quale di me dimenticarmi.
La vita... è ricordarsi di un risveglio
triste in un treno all'alba: aver veduto
fuori la luce incerta: aver sentito
nel corpo rotto la malinconia
vergine e aspra dell'aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione
improvvisa è più dolce: a me vicino
un marinaio giovane: l'azzurro
e il bianco della sua divisa, e fuori
un mare tutto fresco di colore.
Magra dagli occhi lustri, dai pomelli
accesi,
la mia anima torbida che cerca
chi le somigli
trova te che sull'uscio aspetti gli uomini.
Tu sei la mia sorella di quest'ora.
Accompagnarti in qualche trattoria
di passoporto
e guardarti mangiare avidamente!
E coricarmi senza desiderio
nel tuo letto!
Cadavere vicino ad un cadavere
bere dalla tua vista l'amarezza
come la spugna secca beve l'acqua!
Toccare le tue mani i tuoi capelli
che pure a te qualcuno avrà raccolto
in un piccolo ciuffo sulla testa!
E sentirmi guardato dai tuoi occhi
ostili, poveretta, e tormentarti
domandandoti il nome di tua madre...
Nessuna gioia vale questo amaro:
poterti far piangere, potere
piangere con te.